In questo particolare momento storico, é utile rileggere lo scritto a seguire opera di Livio Ghersi, purtoppo recentemente scomparso. Aiuta, sicuramente, a comprendere come l'Islam non debba considerarsi in tutto ostile, come provato dalla sua coesistenza con il cristianesimo in alcuni Stati, e quali siano state le ragioni che hanno determinato la nascita dell'ISIS dopo l'impiccagione di Saddam Hussein.
Saviano contro al-Assad
Ho fatto un fioretto e, dando fondo a tutte le mie riserve di pazienza, ho letto per intero e con la dovuta attenzione l’articolo che Roberto Saviano ha scritto nel numero del settimanale La Lettura, distribuito dal quotidiano Corriere della Sera, del 9 maggio 2021, pp. 2-5.
L’articolo, sobriamente titolato Il veleno di Assad, tende a promuovere il libro di Joby Warrick, appena pubblicato in Italia per i tipi de La Nave di Teseo, con il titolo: La linea rossa. La devastazione della Siria e la corsa per distruggere il più pericoloso arsenale del mondo.
Per chi non lo sapesse – io, ad esempio, povero provinciale, non lo sapevo – Warrick è un giornalista degli Stati Uniti, attualmente in forza al Washington Post. Un giornalista esperto, sia dal punto di vista anagrafico perché ha sessant’anni compiuti, sia per il suo curriculum personale: deve essere bravo, posto che già due volte ha vinto il Premio Pulitzer.
Per Saviano, ciò che ha scritto Warrick ha la stessa autorità dei Vangeli. «Io sono la via e la verità e la vita» (Gv, 14, 6), poteva dirlo di sé stesso soltanto Gesù Cristo. Quando vengano in considerazione le opinioni espresse da un essere umano, consentitemi di ricorrere al sano esercizio del dubbio laico.
La politica internazionale è una materia molto complessa. Molto più complessa dei traffici della camorra, della mafia e della criminalità organizzata in genere, studiando i quali Saviano è assurto a notorietà.
La tesi esposta da Warrick ed entusiasticamente fatta propria da Saviano si può così sintetizzare. L’attuale presidente della Siria, Bashar al-Assad, deve essere ritenuto responsabile per aver ordinato l’impiego del Sarin – «un gas 26 volte più letale del cianuro» – contro gli oppositori.
Per risultare più efficace, Saviano riassume molto e semplifica molto. Così scrive che al-Assad «ha bombardato migliaia di persone con questo veleno, ha usato i gas sulla popolazione civile, su persone indifese. Bambini, anziani, uomini e donne di ogni età e ogni attività sono stati sorpresi da questa morte atroce, sterminati con il gas ideato per uccidere i topi». Si noti che tutto il periodo, concepito in modo che ogni singola parola possa suscitare lo sdegno del lettore, è retto dall’incipit: «al-Assad ha bombardato».
In Siria la guerra civile dura, purtroppo, da dieci anni, essendo iniziata nel 2011; ma, per Saviano, che sempre riassume molto e semplifica molto, la colpa di tutto quanto è avvenuto è soltanto ed esclusivamente di al-Assad: «Warrick raccoglie in Siria le "prove finali" [Nota: le virgolette sono state messe da me] di come il mondo abbia permesso che un assassino sanguinario e folle mietesse oltre mezzo milione di vittime e costringesse oltre 10 milioni di persone ad abbandonare le proprie case, a muoversi all’interno dei confini siriani o a decidere di lasciare il Paese».
Come risolvere i problemi della Siria e, soprattutto, dell’infelice popolo siriano? Warrick e Saviano hanno la loro ricetta, bella e pronta. Al popolo siriano bisogna dare la "giustizia". Non la pace interna, non la ricostruzione, ma la giustizia. Prima o poi al-Assad dovrà essere portato davanti a qualche Corte internazionale di giustizia, poi da questa condannato e punito in modo esemplare.
Afferma direttamente Warrick, intervistato da Saviano: «Potrebbe sembrare un sogno, una fantasia, ma è già successo. Nel conflitto balcanico sono state commesse atrocità terrificanti e le persone che le hanno commesse l’hanno fatta franca per molto tempo. Ci sono voluti vent’anni prima che alcune figure chiave, i capi militari responsabili di quelle atrocità, fossero portati al cospetto del tribunale dell’Aja. Ma alla fine è successo. Penso che non dobbiamo perdere la speranza».
Per quanto mi riguarda, non assocerei mai le parole "sogno" e "speranza" all’auspicio che il corpo di un uomo penzoli da una forca.
Si pensi soltanto a quanto è successo in Iraq dopo che Saddam Hussein è stato, prima deposto, poi impiccato il 30 dicembre 2006. Com’è noto, gli Stati Uniti d’America nel mese di marzo del 2003 intrapresero una guerra contro l’Iraq, muovendo a Saddam Hussein le accuse di possedere segretamente armi di distruzione di massa e di fomentare il terrorismo internazionale. L’intervento americano non ottenne l’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e fu quindi condotto unilateralmente, con il sostegno di una coalizione di "volenterosi". Oltre agli Stati Uniti, che sostennero il maggiore sforzo bellico, l’apporto militare più importante fra gli alleati fu quello del Regno Unito. La guerra, denominata "seconda guerra del Golfo", non ebbe storia: già alla fine del mese di aprile del 2003 le truppe anglo-americane completavano l’occupazione del Paese. La vittoria militare, tuttavia, non risolse alcunché.
In Iraq la stragrande maggioranza della popolazione è sì di religione islamica, ma di osservanza sciita. I Sunniti, i quali, pur essendo localmente minoranza religiosa, erano al potere quando governava Saddam Hussein, una volta resi orfani del potere, hanno dato vita al sedicente Stato islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS). In altre parole, la deposizione e poi l’esecuzione di un tiranno qual era Saddam Hussein non hanno realizzato la "giustizia internazionale", ma hanno semplicemente completato la destabilizzazione di uno Stato, il quale, a sua volta, si trovava inserito in un’area geografica delicatissima, oggetto dei contrastanti interessi di molte potenze, globali e regionali.
Sappiamo cosa abbia fatto l’ISIS, dalla data dell’annuncio della sua formazione nel mese di giugno del 2014, in poi. Dall’ISIS sono derivati i seguenti effetti negativi per la Comunità internazionale: il riesplodere con la massima virulenza del conflitto fra Sunniti e Sciiti; l’imposizione della sharia, ossia della legge islamica, in tutti i territori controllati dai fondamentalisti sunniti; la persecuzione sistematica dei Cristiani d'Oriente e delle altre minoranze religiose; la diffusione del fondamentalismo islamico in tutto il Nord Africa e nell'Africa subsahariana; efferati e sanguinosi attentati terroristici in tutto il mondo, tanto in Europa e in Occidente, quanto nei Paesi islamici; l’aumento della pressione migratoria, sollecitata come fattore di destabilizzazione dei Paesi Occidentali.
Non è ancora finita. Perché è di ieri la notizia che a Kabul, in Afghanistan, è stata fatta saltare una automobile piena di esplosivo davanti ad una scuola frequentata da studentesse, proprio quando le ragazze stavano uscendo. Con un bilancio provvisorio di 55 morti e 150 feriti circa. I Talebani asseriscono di non essere stati loro e, probabilmente, è vero; i medesimi talebani afghani attribuiscono la responsabilità del bestiale attentato terroristico a quanto resta dell’ISIS nel loro Paese.
I fondamentalisti islamici cercano di impedire che le bambine e soprattutto le ragazze possano ricevere una regolare istruzione scolastica, perché vogliono che le donne restino sottomesse. È la stessa logica che seguono i terroristi islamici di "Boko Harām", nella parte settentrionale del continente africano. La parola araba "harām" significa proibizione e la parola "boko", della lingua locale, indica la cultura occidentale. Le azioni terroristiche colpiscono sia Stati dell'Africa subsahariana, con particolare riferimento alla Nigeria, sia dell’Africa sahariana, come il Mali.
Tutto questo riguarda una minoranza di fondamentalisti, i quali strumentalizzano la fede religiosa per perseguire i loro deliranti scopi politici. Non riguarda, invece, il mondo islamico nel suo insieme; meno che mai riguarda la religione dell’Islam. Mondo islamico e religione dell’Islam che meritano il nostro rispetto, sempre che il dovere di conoscere prima di giudicare valga anche in questo caso e non prevalgano invece il pregiudizio e l’ignoranza. Pregiudizio ed ignoranza che, in particolare negli Stati Uniti d’America, purtroppo sono abbastanza diffusi.
Il mondo islamico in quanto tale non è il nostro nemico. Per quanto mi riguarda, ho grande rispetto per la storia e la cultura dei Paesi arabi, che è una storia plurale, così come ho grande rispetto per la storia e la cultura, rispettivamente, dell’Iran e della Turchia.
Oggi gli Stati aventi maggiore popolazione nei quali la religione islamica è maggioritaria sono l’Indonesia, il Pakistan e il Bangladesh. Nel più popoloso Stato dell’Africa subsahariana, la Nigeria, c’è una competizione fra religioni: Cristianesimo ed Islam; con ancora una leggera prevalenza di cristiani. Tra gli Stati arabi, l’Egitto ha una cifra della popolazione superiore a quelle sia dell’Iran, che della Turchia, storiche potenze islamiche non arabe; ma la popolazione dell’Indonesia è più di due volte quella dell’Egitto.
Nel complesso, oggi, nel pianeta, professano la fede islamica un miliardo e seicento milioni di credenti. A fronte di questi numeri, bisogna seriamente dubitare della sanità mentale di coloro che, con leggerezza mista ad ignoranza, parlano di "scontro di civiltà".
Il giornalista statunitense Warrick accusa Bashar al-Assad di essere un tiranno: «E quando c’è un’opposizione – non importa da quale direzione venga, dalla comunità islamica o da ambienti democratici – la soluzione è la brutalità. Il dissenso viene schiacciato».
Questa è la grande mistificazione, alimentata da certa propaganda occidentale. Ossia che all’interno di società che non da oggi, ma in tutto il travagliato periodo del post-colonialismo, diciamo quindi a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, sono state rette da regimi più o meno autoritari, possano tranquillamente valere le nostre belle regole improntate a valori liberal-democratici e si possa tranquillamente instaurare una normale dialettica tra maggioranza e opposizione.
Chi sostiene questo, mente, sapendo di mentire. In quasi tutti i Paesi in cui si sono manifestate le cosiddette "primavere arabe", l’opposizione che si è proposta contro il regime dominante non ha avuto le caratteristiche di un movimento politico improntato a valori liberal-democratici, o social-democratici, quali noi l’intendiamo, ma ha immediatamente puntato sulla fede religiosa per avere consenso sociale.
Bashar al-Assad è un dittatore per caso. Secondo logiche monarchiche, ha ereditato il potere paterno, ma il vero erede era suo fratello, a questo compito specificamente addestrato. Un imprevisto, ossia la prematura morte del fratello, gli ha dato un potere per il quale lui, medico, non era tagliato e che forse in cuor suo non voleva. Di conseguenza, pubblicare, come ha fatto La Lettura, una fotografia in cui la sua foto, con il corredo di baffetti, è accostata a quella di Hitler, è una evidente forzatura.
Il padre, Hafiz al-Assad, governò ininterrottamente la Siria dal 1971 al 2000. Gli Assad fanno parte di una comunità di Alauiti, di osservanza sciita (ma, non coincidente con gli Sciiti duodecimani dell'Iran), in uno Stato, la Siria, la cui popolazione è nella stragrande maggioranza di osservanza sunnita.
Naturale, quindi, che un regime autoritario espresso da una minoranza religiosa abbia dimostrato una certa tolleranza in fatto di religione; della quale per lungo tempo hanno beneficiato i cristiani, anche loro minoritari, ma, prima della guerra civile, consistenti in Siria. Anche la condizione delle donne era notevolmente migliore rispetto a quella che si rinviene in altri Stati islamici più tradizionalisti.
Per questo motivo i sunniti più fondamentalisti hanno maturato un odio mortale contro gli Assad. Grandissima parte degli oppositori del regime siriano, in questi dieci anni, è stata costituita da combattenti islamici sunniti. Non pochi dei quali alleati all’ISIS, o comunque amici dell’ISIS.
In altre occasioni ho scritto, ed oggi confermo, di preferire Bashar al-Assad ai suoi attuali nemici interni, per i seguenti motivi:
1) perché penso sia importante che lo Stato della Siria mantenga la sua integrità territoriale, laddove invece si sono affacciati a più riprese progetti di spartizione del Paese. Da questo punto di vista, il regime attuale è l’unico che abbia un punto di vista e una tradizione "nazionali" siriani;
2) perché il regime di al-Assad è un modello di laicità e di tolleranza religiosa, se messo appena appena a confronto con le milizie islamiche che oggi gli si oppongono; vincessero gli attuali oppositori, avremmo la sharia come legge dello stato.
Tutto questo non significa che per la Siria non si possano ipotizzare tempi migliori. È auspicabile, ad esempio, che molti siriani, i quali sono andati via per sottrarsi alla guerra civile, abbiano l’opportunità di ritornare, in un mutato clima di ricostruzione del Paese e dello Stato. Ed è possibile che il medesimo Bashar al-Assad, quando avrà ottenuto le necessarie garanzie che la Siria resterà uno Stato indipendente, con il suo territorio integro, decida egli stesso di farsi da parte, per favorire la pacificazione nazionale.
L’odio contro la persona fisica di al-Assad, alimentato da Warrick e da Saviano non porta da nessuna parte. Questo è l’unico fatto indubitabile. Che poi, proprio in Siria, ci sia "il più pericoloso arsenale del mondo", di armi chimiche, in quanto tali bandite dalla Comunità internazionale, mi sembra una sciocchezza talmente evidente, che non occorre nemmeno affaticarsi più di tanto per smentirla.
Palermo, 9 maggio 2021 Livio Ghersi
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Ecco nuove interessanti riflessioni di Livio Ghersi sulla forma di Governo e sulle Regioni. Mi permetto solo di introdurre i lettori all'analisi di Livio con l'avvertimento - che estendo anche all'Autore in attesa di leggere la seconda parte del Suo lavoro - con l'avvertimento, dicevo, che la maggior parte delle persone pensanti, sfiduciata da corruzione ed inadeguatezza dei candidati, ha deciso di non recarsi a votare. Non credo che l'entusiasmo giungerebbe di fronte a candidature "presidenziali" di alto profilo, basti ripensare al reincarico "subito" dal Presidente Mattarella in mancanza di valide alternative. In politica, personaggi di alto profilo non ne abbiamo più. Il salvatore della Patria verrebbe dunque eletto dagli stessi odierni frequentatori dei seggi elettorali, e non mi pare che i risultati siano incoraggianti. In conclusione, pur apprezzando lo scritto di Livio, penso che occorrerebbe, innanzi tutto, trovare il modo di riportare la partecipazione politica a livelli accettabili ed indi sperare nell'innalzamento della percentuale dei votanti. Missione impossibile...... La seconda parte è tanto interessante che sarebbe meraviglioso poterla ascoltare pronunciata da un parlamentare: ancora una volta, missione impossibile.....
La riforma costituzionale della forma di governo deve includere la riorganizzazione delle regioni.
La presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, d’intesa con i suoi alleati di governo, ha riproposto la questione dell’esigenza di riformare alcune disposizioni costituzionali, per modificare la forma di governo, nel senso di un rafforzamento del potere esecutivo.
Al riguardo, il modello istituzionale preferibile è quello semipresidenziale proprio della Francia; a suo tempo affermatosi per volontà di Charles De Gaulle.
C’è una grande differenza fra il semipresidenzialismo e proposte strampalate come l’elezione del "Sindaco d’Italia", della quale si fa assertore Matteo Renzi. Nel semipresidenzialismo resta intatto il ruolo della Assemblea Nazionale, liberamente eletta dal Corpo elettorale in un momento diverso rispetto all’elezione del Capo dello Stato.
Dal mio punto di vista, un libero Parlamento, rappresentativo della Nazione, è un presidio di libertà, indispensabile come momento di riequilibrio rispetto al Potere esecutivo.
Qualora la maggioranza parlamentare non coincida con l’indirizzo politico del Presidente, servirebbe la capacità politica di quest’ultimo. Emmanuel Macron, invece, ha evidenti limiti, sia caratteriali, sia di cultura politica. Lo si descrive come liberale; invece è di formazione socialista e ritiene, a torto, che basti il decisionismo, senza preoccuparsi di mediare per allargare l’area del consenso.
Se cercate autentici liberali europei pensate alla FDP di Christian Lindner in Germania, o alla VVD di Mark Rutte nei Paesi Bassi. Macron non c’entra; infatti, piace a Carlo Calenda e a Matteo Renzi, i quali vorrebbero collocarsi al centro del sistema politico italiano, ma sono entrambi ex dirigenti del Partito democratico.
La Francia ha una tradizione rivoluzionaria e insurrezionale: 1789, 1830, 1848, 1870, fino al maggio 1968. Mette tristezza, tuttavia, che su un argomento quale la riforma del sistema pensionistico, possibile oggetto di mediazioni, si debba assistere ad una guerriglia urbana inutilmente distruttiva in tante città francesi, grandi e piccole. Un Capo dello Stato dovrebbe avvertire la responsabilità di garantire l’unità della società. Non esasperare le divisioni.
Per quanto direttamente mi riguarda, in passato ho difeso la forma di governo parlamentare. Ricordo il leader della destra missina, Giorgio Almirante, il quale chiedeva che in Italia si adottasse la stessa soluzione voluta da De Gaulle. Ricordo che, nel mio piccolo, criticai il leader del Partito socialista, Bettino Craxi, il quale, negli anni Ottanta del secolo scorso, lanciò la parola d’ordine della Grande Riforma istituzionale, sia pure espressa in termini ancora troppo generici.
Quanti oggi si schierano a difesa della forma di governo parlamentare, sostengono che non ci sia altro modo per garantire che la Presidenza della Repubblica resti una istituzione neutra, super partes. Ricordiamo gli ultimi sei presidenti, eletti in un momento successivo al maggio del 1978, data dell’uccisione del leader democristiano Aldo Moro, da parte dei terroristi delle Brigate Rosse: Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella.
In un sistema politico troppo frammentato, quale quello italiano, i presidenti della Repubblica hanno finito per svolgere sempre più incisivi compiti di supplenza politica. Sono venuti meno i grandi partiti del dopoguerra, come la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, ciascuno dotato di un proprio, effettivo, radicamento nella società italiana.
Presidenti quali Napolitano e Mattarella sono stati determinanti nello stabilire i rapporti fra l’Italia e le istituzioni della Unitone Europea, le quali, come è noto, si reggono su un accordo politico fra il Partito popolare europeo e quello dei Socialisti e dei democratici. I medesimi presidenti hanno avuto un ruolo pregnante nella politica estera; ad esempio, nel ribadire la fedeltà dell’Italia alla Alleanza Atlantica (Nato). Scusate se vi pare poco.
Le vicende del Partito Democratico dimostrano ampiamente che la neutralità del Presidente della Repubblica è soltanto un mito. Il PD, indipendentemente dal buono o cattivo esito delle elezioni, tende a far parte di quasi tutti i governi. Reale partito di potere, deve le sue fortune al fatto di essere interprete fedele della volontà politica del Capo dello Stato.
La finta neutralità dei Presidenti della Repubblica ci induce a chiederci fino a che punto un governo dichiaratamente di destra possa coesistere con un Capo dello Stato che non fa mistero di avere un indirizzo politico di centrosinistra Ciò che è più grave, il pensiero del Capo dello Stato penetra nell’opinione pubblica attraverso gli organi di informazione di massa; diventa senso comune, fondamento della ideologia del politicamente corretto.
Così può capitare che un intellettuale noto, quale Gad Lerner, definisca la politica sull’immigrazione che il Governo Meloni sta cercando di definire "ingiusta, disumana, inefficiente". Giudizi riportato in prima pagina da un importante quotidiano e poi accettato come senso comune. Peccato che tale giudizio concordasse con quanto dichiarato da un dirigente politico francese (del partito di Macron).
I progressisti leggono la nostra Costituzione e ne traggono la conseguenza che debbano trovare realizzazione tutti i diritti fondamentali di ogni persona umana, a prescindere da ogni logica di copertura finanziaria, ossia a prescindere dalle risorse finanziarie di cui lo Stato effettivamente disponga.
Per fare meglio comprendere la posta in gioco, ricordo l’intervento che Claudio Martelli, al tempo dirigente politico emergente, svolse nel 1982 a Rimini, in una Conferenza programmatica del PSI. Martelli parlò di meriti e di bisogni come di un binomio indissolubile.
Pure l’idea dei meriti è affermata nella Costituzione: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34, terzo comma, Cost.). La logica egualitaria, tuttavia, tende a contrapporsi a quella meritocratica. Il recente movimento degli studenti universitari ha ragione di chiedere che si rendano disponibili nuovi alloggi per i fuori sede nelle residenze universitarie e nelle case dello studente; così come ha ragione di protestare contro il caro affitti. Temo però che a nessuno verrebbe in mente che la possibilità di entrare, o di permanere, nelle residenze universitarie debba essere sottoposta alla condizione di ottenere un certo rendimento negli esami universitari. L’idea dei meriti va oltre la considerazione delle condizioni materiali delle persone e fa appello ad esigenze spirituali: la forza di volontà, la tenacia, la capacità di sacrificio, l’autodisciplina. Ad esempio, nei Paesi nordici e in quelli anglosassoni c’è l’istituto del prestito d’onore, concesso a condizioni di favore agli studenti per consentire loro di frequentare e di concludere il corso di studi che hanno scelto, ma prestiti che loro stessi si impegnano a restituire a distanza di un certo numero di anni dalla conclusione degli studi.
Tra i princìpi fondamentali della Costituzione c’è l’articolo 5, secondo cui: «la Repubblica, una e indivisibile, attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i princìpi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e de decentramento».
Nel diciannovesimo secolo si riteneva, giustamente, che fosse sbagliato presumere che un unico centro decisionale, portatore di identiche procedure amministrative, potesse amministrare territori geograficamente lontani ed aventi caratteristiche sociali, economiche, culturali, molto differenti fra loro. Veniva criticato e respinto il modello amministrativo napoleonico.
Il mondo umano del ventunesimo secolo è del tutto diverso: oggi tutte le attività economiche e finanziarie hanno rilevanza e si influenzano reciprocamente nella dimensione globale, così come le distanze geografiche hanno sempre minore importanza perché le comunicazioni sono veloci e le informazioni sono disponibili quasi immediatamente. Ne consegue che il concetto di autonomia regionale non possa più essere concepito come lo intendeva Carlo Cattaneo nel 1848, ma richieda un radicale ripensamento.
È errato ritenere che tutte le regioni elencate nell’articolo 121 della Costituzione costituiscano realtà istituzionali consolidate, con una propria tradizione storica. Si può fare l’esempio della Emilia – Romagna, i cui centri abitati erano riconducibili a tre diverse entità statuali: 1) i territori dello Stato Pontificio (con l’importante città di Bologna 2) )il Ducato di Modena e Reggio -Emilia; 3) il Ducato di Parma e Piacenza.
L’istituto regionale fu molto valorizzato nella cultura politica del Partito Popolare di don Luigi Sturzo. Pure questo è un retaggio della diffidenza che i cattolici nutrivano nei confronti dello Stato italiano unitario. La concezione della autonomia territoriale ebbe un valore fondamentale anche in quella parte del Partito repubblicano che si richiamava al pensiero di Carlo Cattaneo. Tra i deputati repubblicani membri della Assemblea Costituente va ricordato Oliviero Zuccarini, significativo esponente di tale tendenza.
I repubblicani seguaci di Giuseppe Mazzini, invece, erano fortemente unitari. Temevano che la rivendicazione delle autonomie fosse un espediente per mantenere in vita, in forme diverse, i vecchi Stati preunitari.
Benedetto Croce, nella qualità di membro dell’Assemblea Costituente e di presidente del Partito liberale (PLI), l’11 marzo del 1947 intervenne per valutare complessivamente il progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione dei 75. Nell’occasione criticò «la tendenza a costituire le regioni, a moltiplicarne il numero, ad armarle di poteri legislativi e di altri di varia sorta». Il discorso al quale faccio riferimento è titolato "Il disegno della nuova Costituzione dello Stato italiano". Croce sapeva di interpretare un punto di vista minoritario: sia i socialisti di Pietro Nenni, sia i comunisti di Palmiro Togliatti, ed anche alcuni liberal-radicali come Francesco Saverio Nitti, erano a favore dell’istituto regionale. Secondo Croce, dopo il fascismo e la guerra sciagurata, l’Italia si trovava nelle condizioni di «un organismo che ha sofferto una grave malattia». Si era smarrito così il senso che il massimo bene ereditato dal Risorgimento fosse l’unità dello Stato italiano. Il regionalismo era paragonabile ad un male morale: alimentava le divisioni, i contrasti, le gelosie. Si risvegliavano malanni antichi, quali i contrasti di Nord e di Sud, di Italia insulare e di Italia continentale.
Ben venti articoli della Costituzione entrata in vigore l’1 gennaio 1948, dal 114 al 133, si occupavano delle autonomie regionali e locali. Questa (Titolo quinto della parte seconda) è la parte della Costituzione che ha subìto le più rilevanti modifiche. Ciò è avvenuto con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, approvata quando era in carica un governo con indirizzo di centrosinistra. Quella riforma non fu felice; anche se fu confermata dal Corpo elettorale, in un Referendum troppo poco partecipato.
Non contribuisce certamente all’efficienza del sistema amministrativo italiano il fatto che ci siano ventuno differenti ordinamenti giuridici (19 regioni più due province autonome). Per chi, come me, prende molto sul serio la problematica della partitocrazia, nel senso definito da Giuseppe Maranini (1902-1969), è evidente che 19 regioni e due province autonome costituiscano lo scenario ottimale per classi politiche irresponsabili. Altro che bene comune! Altro che amor di Patria! Soltanto ruoli istituzionali, cariche ben remunerate, tanta visibilità pubblica, gestione del potere, per un alto numero di professionisti della politica.
Se poi si entra nel merito della riforma del Titolo quinto attuata nel 2001, si nota come quattro livelli di governo territoriale (comuni, città metropolitane, province, regioni) siano davvero troppi. Per questa via si crea il massimo di confusione istituzionale, nel senso che agli occhi dei cittadini non è più chiaro quale istituzione sia competente. Si assiste ad un continuo rimpallo di responsabilità fra le istituzioni, perché ciascuna sostiene che un determinato intervento avrebbe dovuto essere posto in essere da altra istituzione. Così tutti diventano irresponsabili.
Per non parlare della problematica del federalismo. Questo, in linea teorica, dovrebbe servire a federare, ossia a mettere insieme, ad unire, realtà statuali, o comunità sociali, che siano fra loro separate; cosicché, dopo la federazione, abbiano un governo unitario.
Negli anni Novanta del secolo scorso si affermò, invece, un curioso federalismo italiano. Doppiamente curioso perché l’Italia era Stato unitario dal 1861 e perché la nostra Costituzione dava già fin troppo spazio al sistema delle autonomie, regionali e locali. Il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, e raffinati giuristi come Gianfranco Miglio, intesero il federalismo in senso opposto: per loro si trattava di allentare i vincoli che legavano la Lombardia e il Veneto al resto del Paese. Chiedevano che la maggior parte delle entrate finanziarie derivanti dal gettito fiscale e dalla riscossione dei tributi in genere, restasse nei territori del Nord, là dove era avvenuta la riscossione. Avevano fondamentalmente due obiettivi polemici. Il primo era «Roma ladrona», ossia la burocrazia ministeriale, la quale, per definizione, era presentata come inefficiente e corrotta.
La polemica si sviluppava poi contro i Meridionali, i terroni, descritti come gente con poca voglia di lavorare, di null’altro desiderosi che di essere assistiti con la spesa pubblica. La Lega Nord dichiarava di ribellarsi a questo supposto parassitismo dei meridionali.
L’attuale Segretario della Lega, Matteo Salvini, ha una linea politica ben differente rispetto a quella prima espressa da Bossi ed ha puntato a costruire un partito nazionale, presente anche al Sud.
Il Governo in carica, tuttavia, vuole utilizzare l’articolo 116 della Costituzione (come modificato dalla riforma costituzionale del 2001) per attivare forme e condizioni particolari di autonomia a vantaggio della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia-Romagna.
Anche in questo caso, tutto si riduce ad una questione di soldi: il Veneto, ad esempio, non può sopportare di trattenere una quota di risorse inferiore a quella spettante alla confinante regione del Trentino – Alto Adige, la quale gode di autonomia differenziata. Non aveva torto, dunque, Benedetto Croce quando parlava di malattia morale!
Cercherò di meglio precisare il mio punto di vista in un successivo articolo. Ora è sufficiente affermare che mi sono convinto di due cose; 1) in un sistema così istituzionalmente frammentato e così partitocratico quale è l’Italia, una riforma della forma di governo in senso semipresidenziale, potrebbe servire a rendere più forte, stabile ed autorevole, il governo del Paese; 2) la eventuale riforma costituzionale non può limitarsi al predetto aspetto, sempre che si segua veramente l’esigenza di perseguire il bene comune, l’interesse a rafforzare la Nazione. C’è la stringente necessità di riformare radicalmente il sistema delle autonomie regionali e locali. I finti democratici ed i finti autonomisti si opporranno con tutte le loro forze, perché hanno troppo da perdere. Mi sia consentito, da modesto intellettuale, di indicare quelle che, in coscienza, sono mie convinzioni profonde e che, nel contempo, mi sembra non manchino di un fondamento razionale. (Prima parte di due).
Palermo, 17 maggio 2023 Livio Ghersi
Seconda parte
Proposta di sostituire le Regioni ordinarie con tre Macroregioni.
L’autonomia differenziata entrò a far parte della Costituzione in vigore dall’1 gennaio 1948. Ciò avvenne per validissimi motivi, non per capriccio. Si trattava di tutelare minoranze linguistiche, come i francesi della Val d’Aosta, o i tedeschi dell’Alto Adige. Nel caso del Friuli-Venezia Giulia, ultima regione a statuto speciale istituita in ordine di tempo, si trattava di meglio garantire pacifici rapporti con gli sloveni (a Gorizia), con i croati (a Trieste), e gli Slavi in genere. Il tutto in conformità a trattati internazionali.
Le altre due regioni ad autonomia differenziata previste dai Padri costituenti sono le nostri grandi isole: Sicilia e Sardegna. L’insularità costituisce già una condizione particolare; non soltanto per le distanze geografiche. Nel caso della Sicilia, la specialità discende da una storia ricchissima, che vide una parte dell’isola dominata dai Punici (Cartaginesi), mentre nella parte orientale dominavano gli antichi Greci (in particolare, a Siracusa). Nel 1130 fu riconosciuta alla Sicilia la dignità di Regno. Primo re fu il nobile normanno Ruggero II. Tutti i possedimenti normanni nell’Italia Meridionale, in Calabria, in Puglia, in Campania (inclusa Napoli), allora erano compresi nel Regno di Sicilia.
Dopo il Congresso di Vienna del 1815, Ferdinando I di Borbone, riportato sul trono, pensò di semplificare la realtà istituzionale: non più due autonomi regni di Napoli e Sicilia, retti da un unico sovrano in virtù di una unione personale, ma un unico Stato delle Due Sicilie. Una parte rilevante dell’aristocrazia e della classe dirigente isolane non perdonarono mai ai Borbone di Napoli quel declassamento. Non si spiegano altrimenti gli eventi del 1848-1849 e, soprattutto, l’esito della spedizione dei mille, guidati da Giuseppe Garibaldi, nel 1860. Dopo lo sbarco nell’isola degli anglo-americani, nel 1943, il mito della specialità della Sicilia alimentò il fenomeno del Separatismo.I nostri Padri costituenti valutarono tutti quei precedenti storici e si convinsero che, per convivere in pace, servisse il riconoscimento di un regime di speciale autonomia. Fu così che la Sicilia poté eleggere la propria Assemblea regionale già nel 1947, ossia prima che si tenessero le prime elezioni del Parlamento repubblicano.
Dopo aver concluso il proprio settennato di Presidente della Repubblica (1948-1955), Luigi Einaudi, economista ed intellettuale liberale, pubblicò il libro "Prediche inutili". Comprendeva il saggio titolato "Che cosa resterebbe allo Stato?" Einaudi dimostrava che ciò che era stato concesso alle regioni ad autonomia differenziata non era estensibile alla totalità delle regioni.
Altrimenti, sarebbero venute meno le risorse finanziarie necessarie per fare funzionare lo Stato italiano.
Il principio costituzionale dell’equilibrio fra entrate e spese nel bilancio dello Stato, affermato dall’articolo 81 della Costituzione, come riformulato dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, non viene tenuto nella dovuta considerazione dagli odierni autonomisti. Non si dovrebbe dimenticare che ci sono rilevanti spese il cui onore ricade comunque sul bilancio dello Stato italiano unitario, indipendentemente dalla quantità delle entrate riscosse anno per anno. Di conseguenza, è sbagliato determinare le risorse di ogni regione con il criterio della compartecipazione al gettito fiscale, come se si trattasse di una cifra che resta costante.
Faccio alcuni esempi. Lo Stato unitario deve farsi carico, tra l’altro, di dare copertura finanziaria alla spesa pubblica per i seguenti interventi, A) Spese per il funzionamento dello Stato-apparato (Magistratura, ordinaria, amministrativa e contabile, Arma dei Carabinieri e altre Forze armate, Forze dell’ordine, strutture logistiche quali le caserme, armamenti, Istituti di detenzione, Capitanerie di porto, rappresentanze diplomatiche e consolari dell’Italia all’estero, interventi di cooperazione internazionale con Paesi terzi, in particolare quelli in via di sviluppo. B) Servizio del debito pubblico. Uno Stato molto indebitato, quale l’Italia, ha necessità di emettere periodicamente titoli del debito pubblico (BOT, eccetera), affinché siano acquistati sia nei mercati finanziari internazionali, sia da risparmiatori italiani. In ciascun esercizio finanziario, lo Stato deve stanziare somme per restituire ai creditori, internazionali ed interni, quanto ha ottenuto in prestito, con la maggiorazione degli interessi, a suo tempo concordati. Qualora lo Stato trascurasse tale adempimento, nessuno sarebbe più disposto a concedergli denaro a credito. C) Spese per il sistema previdenziale, cioè per il pagamento delle pensioni maturate dai lavoratori, al termine del loro ciclo lavorativo. D) Spese per interventi cosiddetti assistenziali, ossia finalizzati a rinsaldare la coesione sociale; nei Paesi anglosassoni si parla di welfare State. Si potrebbe continuare, con un lunghissimo elenco.
L’articolo 116 della Costituzione è stato purtroppo modificato dalla riforma costituzionale del Titolo quinto, nel 2001. Quanti erano gelosi delle poche regioni a statuto speciale, hanno previsto un meccanismo che consente anche a regioni ordinarie di avere forme e condizioni particolari di autonomia. La logica è semplice: si concede alle regioni ordinarie interessate di attivare ulteriori materie in cui avrebbero competenza. Alle accresciute competenze corrisponderebbero ulteriori risorse finanziarie, tra quelle riscosse nel territorio regionale, sottraendole contestualmente allo Stato. La procedura di cui all’articolo 116, terzo comma, Cost., per fortuna finora non si è mai completata con successo. Richiede l’iniziativa di ogni regione ordinaria interessata, sentiti i propri enti locali. Nel caso del Veneto e della Lombardia, le rispettive popolazioni si sono dichiarate d’accordo in appositi Referendum consultivi. Il che non significa molto: alla domanda se si vuole che le tasse pagate dai contribuenti restino, quanto più possibile, nel loro territorio regionale, tutti risponderebbero affermativamente. La procedura prevede poi una apposita intesa fra lo Stato e la regione interessata. Di questo si è occupato il ministro Roberto Calderoli, parlamentare di antica esperienza. Il ministro ha pensato di tranquillizzare l’opinione pubblica nazionale, assicurando che si garantirà che, su tutto il territorio nazionale, siano rispettati i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali». Come dire che il Meridione, in ritardo di sviluppo, non sarà ulteriormente penalizzato da un favore fatto alle più ricche regioni del Nord. Sarò malpensante, ma la rassicurazione non mi rassicura. Il ministro non ha inventato alcunché: la formula dei livelli essenziali delle prestazioni è affermata nella Costituzione dal 2001. Si veda l’articolo 117, secondo comma, lettera m), Cost., laddove si elencano le materie in cui lo Stato ha potestà legislativa. Facciamo l’esempio della tutela della salute, materia di legislazione concorrente, che finora ha assorbito la stragrande maggioranza delle risorse finanziarie delle quali le singole regioni ordinarie dispongono. La disposizione costituzionale, vigente al 2001, ha forse impedito che la qualità e l’efficacia delle prestazioni nella sanità, variasse notevolmente da regione a regione?
Per completare la procedura di cui all’articolo 116 Cost, serve una legge approvata da entrambe le Camere, a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna. Si sentono dichiarazioni minacciose, in particolare dal Presidente della Regione Veneto: si minaccia la crisi del governo Meloni qualora la legge sull’autonomia differenziata non venisse approvata. Qualche voto, però, quel governo lo perderebbe anche se la medesima legge venisse approvata. Il governo in carica è impegnato su molteplici fronti e, secondo me, sarebbe un atto di irresponsabilità farlo cadere.
Questo mese di maggio 2023 è stato funestato dagli eventi calamitosi che hanno riguardato l’Emilia - Romagna: le province di Forlì-Cesena (con Faenza), Rimini, Ravenna (con Lugo di Romagna), la stessa Bologna. Piogge di intensità eccezionale fanno esondare fiumi e corsi d’acqua; ma di questo non ci si può meravigliare più di tanto. Ci si meraviglia piuttosto della palese inadeguatezza delle istituzioni pubbliche (regioni, comuni, eccetera). Nella pratica amministrativa, la teoria conta meno di zero. Si deve guardare esclusivamente ai risultati. Da noi si considera virtuosa una regione se si è dotata di un proprio piano regionale delle acque, oppure se ha approvato una legge regionale per limitare il consumo di suolo (la cementificazione). Le alluvioni si fanno un baffo di questi piani e di queste leggi. Prima di cambiare argomento, tengo ad esprimere il mio totale apprezzamento nei confronti di quei tanti giovani che, come volontari, sono accorsi in Romagna per dare un aiuto materiale, per rimuovere l’acqua e il fango dai luoghi alluvionati. Rappresentano il meglio della Nazione italiana.
Ho ascoltato l’interessante punto di vista di un docente di ingegneria idraulica: come azione preventiva, bisognerebbe costruire, accanto ai fiumi e torrenti, vasche di espansione, invasi, nuovi canali, in modo da indirizzarvi l’acqua piovana in eccesso. Si deve passare dalla logica attuale, in cui eccezionalmente la regione bandisce appalti di opere o di servizi, ad un diverso ordinamento, in cui la regione operi davvero come un ente di programmazione. Strutture tecniche permanenti, dotate delle migliori professionalità, dovrebbero individuare tutte le opere di ingegneria idraulica necessarie, incluse la manutenzione delle dighe esistenti e la costruzione di nuove dighe. Dovrebbero essere elaborati piani di attuazione; cosicché mese per mese sia chiaro quali progressi si fanno; oppure, per responsabilità di chi, non si fanno. Tutto questo non è alla portata di piccole regioni, come il Molise (con tutto il rispetto). Non è neanche alla portata di una regione di medie dimensioni, quale appunto l’Emilia - Romagna. Un’esperienza ormai più che cinquantennale attesta il fallimento delle regioni ordinarie, istituite nel 1970. Sono enti buoni soltanto a produrre spesa pubblica; infatti, proprio a partire dal 1970, il rapporto fra debito pubblico dello Stato e Prodotto interno lordo (PIL) è nettamente peggiorato. Ricordiamoci di Giovanni Malagodi, segretario del Partito liberale, e della sua lunga azione contro le regioni ordinarie. Ciò non significa teorizzare che si debba accentrare ogni compito nello Stato: anche le burocrazie ministeriali danno spesso prove di inefficienza. Il problema è quello di far corrispondere la competenza territoriale regionale con aree vaste, il più possibile omogenee dal punto di vista dei precedenti storici e della fisionomia culturale-
Una riforma costituzionale è una cosa estremamente seria: richiederebbe una parziale riscrittura di quasi tutti gli articoli del Titolo quinto. Cosa che non si può fare in un articolo di giornale.