Nel leggere certa filosofia, mi rendo conto che anche le più articolate riflessioni ed invenzioni giuridiche nelle quali mi imbatto quotidianamente leggendo sentenze della Cassazione, sono poca cosa.
Pensare alla dialettica crociana ed ai quattro momenti distinti della vita dello spirito ( arte, logica, etica ed economia ne sono le forme) e pensare che ogni categoria contiene degli opposti ( bello - brutto, vero - falso, bene - male ed utile - dannoso ) è riflessione accessibile senza particolari difficoltà.
Il problema è che, dopo, si giunge alla dialettica fra gli opposti ed al rapporto di ciascuna forma con le altre, da tenere assolutamente distinta per Croce, salvo una sorta di " interferenza" dovuta dal fatto che ogni forma implica la precedente ed è implicata dalla successiva ( ad esempio, non c'è azione che non sia preceduta dalla conoscenza).
Hegel la pensava diversamente: non solo nel suo sistema erano incluse anche la religione e la natura ma, sopratutto,la sua visione era caratterizzata da una opposizione fra i vari momenti della struttura dialettica, opposizione che è roba ben diversa dalla distinzione crociana, caratterizzata dalla interferenza di cui s'è detto.
Bene, arriviamo al dunque che riguarda studi fra differenze ed interferenze fra la nostra filosofia e quella germanica.
L'impareggiabile Livio Ghersi ha scritto su questo, con particolare riferimento allo storicismo, davvero tanto, ed in libreria potrete trovare il Suo " Lo storicismo in Germania ed in Italia" che è un libro di quasi mille pagine e dunque difficilmente eguagliabile in completezza ed attenzione allo specifico tema.
Come regalo per il nuovo anno, riporto, a seguire, la copertina del libro ed il suo retro, permettendomi solo una breve osservazione: non è singolare che, in ambito elettivo, le Istituzioni anche ai più alti livelli, ospitino in maggioranza personalità in conflitto con i congiuntivi mentre menti illuminate ( ce ne sono tante a disposizione di tutte le formazioni politiche) vengono lasciate in disparte? Chiunque, recandosi al vivaio, dovendo scegliere a parità di prezzo fra un insulso cespuglio ed un robusto albero colmo di frutti succosi, sceglierebbe il secondo.
Sta di fatto che, in quell'immenso vivaio cui tutti siamo chiamati a recarci periodicamente che è la cabina elettorale, i cespugli sono sold out. Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti, o forse solo di quella ormai sparuta minoranza che avrebbe volentieri scelto l'albero dai buoni frutti.
30 dicembre 2000 Pasquale Dante
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Ciò che alcuni definiscono "immigrazione" ed altri "accoglienza" suscita sentimenti contrastanti. Livio Ghersi ha le Sue ragioni che esprime attraverso una indubbia capacità di analisi critica sorretta dalla logica e scevra da ogni condizionamento sentimentale. Da marinaio, potrei aggiungere che ove mai sorpreso dalla Guardia Costiera privo di giubbotti di salvataggio, di estintori e di tutti gli innumerevoli accessori previsti dalla normtiva per la navgazione costiera, mi troverei già nei guai. Ove mai poi sorpreso con una imbarcazione stracolma di passeggeri, fra i quali minori con o senza genitori, tutti verremmo portati in salvo ma, giunti a terra, tutti verremmo anche trasferiti presso la più vicina casa circondariale. Non mi si dica che il diritto deve cedere il passo alla necessità, poichè tanto potrebbe giustificare anche l'assalto degli sfortunati nostri concittadini non abbienti a qualsivoglia supermercato, cosa per il momento non ancora consentita, tuttavia c'è qualcosa che spinge in tanti a valutare il fenomeno con un atteggiamento diverso. Personalmente, credo ci si senta tutti responsabili per la produzione delle armi che vengono poi esportate nei territori dai quali si fugge, per avere sottratto ricchezze a tutti i Paesi del terzo mondo, per avere votato politici ormai interessati solo a scrivere sciocchezze sui social e poi per un sentimento di fratellanza planetaria che dovrebbe abbattere le frontiere, sentimento condiviso e propugnato anche dal Pontefice, probabilmente dimentico del sacrificio in vite umane subito dalla Chiesa in terra di Missione.Tanto premesso, nella consapevolezza che un ordine planetario sorretto dal buon senso è ben lontano dalle decisioni estreme che si affacciano ad opposti orizzonti politici anche qui in Italia, vi lascio alla lettura di questa attenta analisi di Livio Ghersi che ritengo utile come strumento di riflessione per tutti. ( P. Dante )
Uguaglianza, diritti umani universali, immigrazione.
Uno dei vantaggi della condizione di malattia è un rilevante aumento della libertà di pensiero. Si sa di essere fuori dai giochi di potere. Non ci sono cariche di governo, o politiche, alle quali si possa aspirare. La salute è malferma e il tempo a disposizione è poco. Di conseguenza, non si sta più a misurare cosa sia opportuno, o inopportuno dire. Aumenta, invece, la voglia di riflessione pura, fine a sé stessa, a servizio di null’altra cosa che dell’esigenza di verità. Almeno quella che, dentro di noi, avvertiamo come tale. Pure il voler manifestare all’esterno le conclusioni di questa riflessione pura denota che si intende mantenere un rapporto positivo con gli altri umani. Anche se li si forza a dubitare delle loro tradizionali e rassicuranti certezze.
Da parte delle forze politiche progressiste, dominate dagli slanci umanitari, e che, in estrema sintesi, potremmo definire "di sinistra", si tende a dare una spiegazione banale del problema della gestione dei flussi di immigrazione. Da che mondo è mondo, si dice, i popoli migrano per cercare di migliorare la propria condizione di vita (si omette, però, di precisare che queste migrazioni storiche si risolvevano nel togliere la terra ai popoli che prima la possedevano; quindi, erano tutt’altro che pacifiche). Si continua: non è possibile, dal punto di vista della nostra sensibilità democratica, fermare gli immigrati con provvedimenti autoritari; in particolare, con la forza delle armi. Il ragionamento si conclude con: è inevitabile imparare a coesistere con l’idea che anche la nostra società sia destinata a diventare multi-etnica. Nella qual cosa i progressisti colgono soltanto vantaggi. La perdita della fisionomia culturale della propria Nazione è valutata alla stregua di un piccolo dettaglio; al quale si può rinunciare facilmente. Anzi, volentieri. Del resto se le scuole pubbliche sono le prime a non preoccuparsi di tramandare e di rafforzare la nostra identità culturale, cosa bisognerebbe aspettarsi?
Questa banalizzazione, secondo me, va contrastata. Ci sono enormi questioni di portata storica; tutte collegate fra loro. Collegate nelle dinamiche reali; ma che andrebbero collegate anche nel pensiero. Perché nel pensiero tutto si tiene. Nel breve spazio di questo articolo io parlerò, dunque, del fenomeno della sovrappopolazione mondiale, del valore dell’uguaglianza (considerato, da molti, valore primario), della ideologia dei diritti umani universali. Quest’ultima ha due matrici storiche: gli Stati Uniti d’America e la Francia.
Partiamo dalla sovrappopolazione. Nel 1910, qualche anno prima dell’inizio della prima guerra mondiale, la popolazione umana globale era stimata in un miliardo seicento milioni. Un secolo dopo, il 31 ottobre 2011, è stato proclamato "Day of Seven Billion" per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla circostanza che, a quella data, la popolazione globale aveva raggiunto la cifra di sette miliardi di esseri umani. Nei 100 anni presi in considerazione ci sono stati: due guerre mondiali, molto distruttive e con un alto bilancio di morti, lo sterminio sistematico degli Ebrei in Europa, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, alcune pandemie molto letali, come la Spagnola, tantissime guerre e guerricciole, carestie, siccità, eventi naturali distruttivi come i terremoti. Eppure, nei medesimi cento anni, la popolazione mondiale è cresciuta del 437,5 per cento. Si tratta di dati reali.
Come già aveva intuito l’economista inglese Thomas Robert Malthus, nel suo Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sugli sviluppi futuri della società (prima edizione 1798), la popolazione tende a crescere in progressione geometrica. Secondo calcoli empirici elaborati da Malthus, il quale allora studiava lo sviluppo demografico delle ex colonie inglesi in Nord America, che poi sarebbero diventate gli Stati Uniti d’America, la popolazione tende a raddoppiarsi (va moltiplicata per la costante 2) dopo un periodo di 25 anni.
In contraddizione con le libertà di manifestazione del pensiero e di stampa che dovrebbero essere fondamentali nei Paesi del cosiddetto "Occidente", i governanti e le maggiori forze politiche tendono a non dare rilevanza alla questione della crescita della popolazione mondiale. Ritengono non sia "politicamente corretto" far sapere all’opinione pubblica che quanto più alto è il numero degli esseri umani viventi nel pianeta, tanto più difficile diventa ogni tentativo di condurre politiche che, effettivamente, subordinino le esigenze dell’economia e dell’industria alla necessità di rispettare gli equilibri dell’ambiente naturale.
Intanto, nell’anno 2022, la popolazione mondiale ha raggiunto la cifra di otto miliardi di esseri umani.
Le persone chiamate a discutere il problema si trincerano spesso dietro una versione molto ottimistica delle dinamiche demografiche. In Occidente non ci sarebbero problemi, perché la tendenza che si riscontra è quella alla denatalità. Con riferimento alla Cina, si immagina lo stesso esito. Si ammette che l’Africa fa eccezione in negativo e, quindi, è fonte di preoccupazioni.
È giusto preoccuparsi dell’Africa perché tanti Paesi africani hanno, al momento, tassi di natalità del tutto fuori controllo. Il problema, tuttavia, non si ferma all’Africa. Più un Paese è povero, arretrato, sottosviluppato, più tende a fare figli. Ciò contribuisce a rendere quel Paese ancora più povero, disgraziato, condannato al sottosviluppo. Papa Francesco pensa che la soluzione stia nel combattere la povertà. Gli economisti seri ribaltano l’impostazione e affermano che bisogna invertire la propensione alla natalità senza controllo. Solo così sarebbe possibile conseguire quei processi di accumulazione primitiva che consentirebbero di far fruttare al meglio le risorse (quelle poche) disponibili nel dato Paese.
Pure Deng Xiaoping, per ottenere l’avvio dello sviluppo capitalistico della Cina, lo fece precedere dalla politica del figlio unico per ogni coppia. Mi riferisco alla politica di pianificazione familiare introdotta nel 1979.
La quantità della popolazione mondiale si può ridurre in due modi. 1) La soluzione più razionale andrebbe individuata nella capacità di indurre tutti gli Stati del mondo ad impegnarsi in una efficace politica di pianificazione delle nascite, concepita con i criteri più equilibrati che sia possibile, in modo che tutte le etnie, tutte le nazioni, quindi tutte le culture storiche, abbiano continuità vitale, ossia possano continuare ad esistere. 2) L’alternativa sarebbe quella di non fare alcunché. In tal caso, si lascerebbe che la natura, violentata dagli esseri umani, segua il suo corso. Nelle aree urbane sovraffollate si manifesterebbero, sempre più frequentemente, malattie e pandemie, anche perché la carenza di acqua comprometterebbe sempre più le condizioni igieniche. Potrebbero scoppiare carestie per insufficienza di derrate alimentari essenziali. Una parte delle terre attualmente emerse potrebbe essere ricoperta dagli oceani, a seguito dello scioglimento dei ghiacciai polari, dovuto all’aumento della temperatura del pianeta. La progressiva riduzione delle risorse naturali essenziali e delle fonti energetiche renderebbe probabile l’insorgere di nuove guerre. Combattute da tutti contro tutti, allo scopo di ottenere il controllo delle ultime risorse naturali disponibili.
La Chiesa Cattolica, ma lo stesso atteggiamento è presente nelle autorità religiose di altre grandi religioni storiche, preferirebbe di gran lunga la soluzione di non fare alcunché. Si tratterebbe di rimettersi docilmente alla volontà di Dio. Del resto, tutte le grandi tradizioni religiose hanno sempre contemplato l’evento della "fine del mondo" umano. Espressioni come "giudizio universale", "segni dell’Apocalisse", eccetera, si collocano in tale contesto. Per quanto mi riguarda, mi inchino davanti alla volontà dell’Altissimo; ma penso che, fino all’ultimo minuto utile in cui gli esseri umani continueranno a poter fare affidamento sulla loro intelligenza e sulle loro energie, non debba essere lasciato alcunché di intentato per salvare il mondo umano.
Il Cristianesimo ha, sicuramente, dei grandi meriti storici. Mi limito a citarne due: a) la capacità di ingentilire gli esseri umani, cercando di contrastare la loro natura ferina e violenta; 2) il comandamento della carità, che, esercitato nei confronti del nostro prossimo immediato, contribuisce a rendere notevolmente migliore la nostra società. Seguo con attenzione e passione tutte le problematiche che hanno a che fare con la spiritualità; ma dissento in modo radicale dal Papa e dai cattolici in genere, i quali pongono come primo valore la creazione e la conservazione della vita. Attenzione, perché la vita umana, in certe sue manifestazioni, equivale a una pesantissima condanna. Ci devono essere condizioni minime affinché la vita umana sia degna di essere vissuta; altrimenti, la non-vita (il nulla) è centomila volte preferibile.
Fra gli ideali del 1789, ossia della Rivoluzione francese, si mescolavano e si mettevano sullo stesso piano: uguaglianza, libertà, fraternità. In realtà, il valore primario, indiscutibilmente fondamentale, per i socialisti democratici e per i democratici radicali, è l’uguaglianza. Lo è tanto più per i comunisti e i marxisti. Tutta l’ideologia dei diritti umani universali, se ci si riflette, non è altro che una esplicazione del principio di uguaglianza. Ogni essere umano, indipendentemente dal luogo di nascita, dall’appartenenza ad una Nazione, e dalle proprie caratteristiche somatiche, avrebbe – in teoria – gli stessi diritti di ogni altro essere umano. Ciò a prescindere dai meriti, dai comportamenti individuali. Poiché l’ideologia dei diritti umani è stata concepita e materialmente scritta da autori degli Stati Uniti d’America, gli stessi americani tendono ad applicarla in modo meno rigido, meno logicamente conseguente, di quanto farebbero un socialdemocratico, o un comunista, europeo.
Per alcuni l’idea dell’uguaglianza viene vissuta come un valore religioso. Sarebbe peccaminoso e malvagio metterla in discussione. Bisogna crederci e basta.
Proprio studiando le critiche che Gaetano Salvemini e poi Norberto Bobbio (idealmente vicino a Salvemini, anche se molto più controllato di lui nei comportamenti e nei giudizi) mossero al pensiero di Benedetto Croce, ho capito perché sono liberale e non, ad esempio, socialista democratico, o democratico radicale. Il liberale, invece, non ritiene che l’uguaglianza sia il valore primario e fondamentale. Sa che non è possibile prescinderne del tutto; ma lo accetta (o lo subisce) entro limiti molto precisi.
Il primo limite accettato è quello della parità di trattamento dei cittadini davanti alla legge (art. 3, primo comma, Cost.). Ciò vale, tuttavia, per i cittadini, ossia per coloro che sono titolari del diritto di cittadinanza. Secondo me, lo stesso diritto non deve valere con riferimento a persone, immigrate da Paesi terzi, i quali chiedano di entrare in Italia. Si è recentemente ricordato come la Polonia abbia accolto oltre un milione di profughi ucraini e dato a loro assistenza e protezione – anche se, in questo caso, non si sa se gli ucraini resteranno per un tempo lungo, o ritorneranno nel loro Paese.
L’integrazione tra polacchi e ucraini è relativamente facile; fra loro ci sono legami storici, culturali e le stesse lingue, in parte, possono essere comprese dagli uni e dagli altri. Viceversa, se si immettessero in Polonia ingenti quantità di immigrati provenienti dall’Africa Subsahariana, si introdurrebbero dei corpi estranei, i quali nulla hanno in comune con il Paese di accoglienza. Chi vuole interpretare malevolmente le mie parole, mi accusi pure di razzismo. Io preferisco parlare di "assoluta estraneità culturale". Un’estraneità che fa male, tanto agli ospitanti, quanto agli ospitati.
Quando si legga l’articolo 79 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) sembra che la "immigrazione illegale" e la "tratta degli esseri umani" siano valutati fenomeni molto negativi in sé, tanto da richiedere un "contrasto rafforzato" da parte dell’Unione. La norma, tuttavia, non è risolutiva. Così come, purtroppo, finora non è stata risolutiva la disposizione dell’articolo 77 del TFUE, riguardante i controlli alle frontiere. La regola è che non vi debbano essere controlli sulle persone nell’attraversamento delle frontiere "interne". Viceversa, con riferimento alle frontiere "esterne", vanno garantiti «il controllo delle persone e la sorveglianza efficace dell’attraversamento» (cfr. art. 77, primo comma, lettera b), del TFUE).
Sostengo che tutti gli Stati membri dell’Unione Europea debbano avere il diritto di scegliere, periodicamente, il numero di lavoratori (e di studenti) che possono essere introdotti nel circuito dell’economia legale, a sostegno della produzione dello Stato medesimo. La scelta della provenienza è altrettanto importante della quantificazione del numero. Perché lo Stato deve avere il diritto di valutare i lavoratori di quali altri Paesi possano più facilmente integrarsi nel territorio nazionale. Senza alcun maldestro automatismo.
Il secondo limite di accettazione del principio di uguaglianza riguarda il metodo democratico: meglio contare le teste, piuttosto che fracassarle. Dal punto di vista liberale, il voto deve essere preceduto da un libero ed intenso dibattito pubblico; che consenta ai cittadini elettori di definire il proprio orientamento. La democrazia liberale si risolve in una procedura formale (non sostanziale) che garantisce un esito non-violento. I soccombenti non vengono perseguitati, o puniti. Potranno rifarsi nella prossima consultazione elettorale, se ottengono più consenso. È stato detto che se gli dèi avessero esigenza di assumere decisioni comuni, utilizzerebbero il metodo democratico. Per gli umani tutto si complica: il suffragio universale determina esiti perversi e distorcenti la logica della rappresentanza, quando le espressioni di voto sono comprate con decisioni di spesa pubblica.
Il terzo limite attiene a comportamenti che si traducono in costumi di civiltà: come mettersi disciplinatamente in fila per poter accedere a spettacoli cinematografici o teatrali, ad eventi musicali, a concerti, a musei, a pinacoteche, eccetera.
Oltre i casi considerati, ogni forzatura egualitaria diventa fortemente controindicata. Il principio che i liberali contrappongono all’uguaglianza è quello della "libertà responsabile"-
Gli egualitari ci invitano a farci carico di ogni essere umano, come se le risorse economiche per mantenerlo e per integrarlo si trovassero sotto gli alberi. È il risvolto demagogico dell’ideologia dei diritti umani. Il diritto "deve" prevalere sull’economia; il diritto "deve" prevalere sulla politica. Dal punto di vista dei diritti umani, "uno vale uno", come teorizzavano i nostri Cinque Stelle. Così chi procrea irresponsabilmente potrà essere incoraggiato a farlo; tanto, ci sarà un occidentale, un europeo, un italiano, che dovrà farsene carico. Per continuare a espiare le colpe del colonialismo.
Ho letto, nel Corriere della Sera, la vicenda di una famiglia siriana: padre, madre, una figlia di circa sette anni. Per assicurare un futuro migliore alla bambina hanno deciso di venire in Europa. Solo che, per chissà quale problema di ordine pratico, hanno preferito non tentare la rotta balcanica, ma si sono avventurati nel Mediterraneo, mettendosi nelle mani degli scafisti. Nel tempo, hanno avuto a che fare con più organizzazioni di scafisti e ciascuna ha richiesto il suo compenso. In totale, ai poveretti sono stati estorti settantamila euro. In più, la moglie è stata violentata. Io penso che se fosse veramente chiaro che l’Italia (per la sua parte) e l’Unione Europea non consentono l’immigrazione illegale, anzi la contrastano con tutte le modalità possibili, nessuno sarebbe disposto a farsi estorcere denaro da malavitosi e a correre rischi di ordine fisico, quando l’esito finale più probabile sia comunque quello del respingimento.
Palermo, 18 novembre 2022 ( Livio Ghersi )
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Conservatori e liberali. Le prospettive di Giorgia Meloni.
Ci sono espressioni di voto rispettabili e altre che non lo sono? Alcuni benpensanti, abituati a considerare sé stessi come parte della "sinistra democratica", come "progressisti" e "riformisti", ritengono, ad esempio, che, a dispetto di tutti i limiti del Partito Democratico, quello al PD sia un voto del quale non ci si debba vergognare.
Altra cosa il voto al Partito di Giorgia Meloni. A lei non si perdona il vizio storico di essere "post-fascista". Cosa c’entra il fascismo storico con la recente esperienza di Fratelli d’Italia? Proprio niente. Il regime fascista poté affermarsi grazie allo strumento operativo della Milizia. Decine e decine di migliaia di ex combattenti della prima guerra mondiale, presenti in ogni parte d’Italia, costituirono il braccio armato del fascismo. Avevano respirato il clima di violenza ed il disprezzo della vita umana, propri della guerra. Avevano maturato un’esperienza di combattimento militare. Disponevano di armi (non soltanto fucili e bombe a mano; talora, anche mitragliatrici). C’è qualcosa oggi, nel nostro Paese, di paragonabile, anche alla lontana, alla presenza di massa di quella Milizia? Possiamo sì trovare qualche migliaio di straccioni, i quali amano fare il saluto fascista e, ogni tanto, cercano di praticare la violenza. Dal punto di vista dell’ordine pubblico, però, non costituiscono un problema. Non rappresentano certamente la forza del Partito della Meloni. Semmai, lo indeboliscono.
A me piace professarmi antifascista. Venero la memoria di martiri antifascisti quali Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Leone Ginzburg. Aggiungo, per non sembrare che voglia ricordare esclusivamente i caduti di cultura liberale, Giacomo Matteotti, Carlo Rosselli, Antonio Gramsci. Ricordo con ammirazione e rispetto antifascisti quali Ernesto Rossi: lui, ad esempio, durante il regime fascista, trascorse nove anni in carcere e quattro al confino. Ciò che non è meno importante, mi sono formato politicamente leggendo gli autori dell’opposizione liberale al fascismo; su tutti: Benedetto Croce e Adolfo Omodeo.
Giorgia Meloni è un’ottima professionista politica; in più ha una visione e degli ideali. Si comprende, tuttavia, che, da buona professionista della politica, cerca di non impiccarsi ai princìpi, ma sa essere realista. I rapporti che ha dichiarato di voler mantenere con l’Alleanza Atlantica, gli Stati Uniti d’America e l’Occidente, probabilmente corrispondono a sue convinzioni soggettive. Si tratta anche, però, di scelte necessitate; altrimenti non le avrebbero consentito di assumere la carica di Presidente del Consiglio dei ministri.
Cosa può unire un liberale di tradizione risorgimentale quale io sono, con il Partito della Meloni? L’amor di Patria. Anche se patriottismo e nazionalismo sono concetti molto diversi. Il patriota ama la propria lingua, la propria cultura, la propria letteratura, i propri costumi e tradizioni; ma rispetta effettivamente tutti gli altri popoli e mai si sognerebbe di ricorrere alla violenza e alla prevaricazione nei loro confronti. Del resto, abbiamo conosciuto "l’imperialismo straccione" di Benito Mussolini. "Straccione" perché non è certamente il numero dei cittadini, non sono gli otto milioni di baionette, non è la retorica, a rendere una nazione una "grande potenza". Nella seconda guerra mondiale il divario fra le Forze armate italiane e quelle degli Stati Uniti, o del Regno Unito, era talmente evidente, da apparire scandaloso. Stiamo parlando di un deficit di armamenti, di tecnologia, di mezzi, di efficienza organizzativa, di logistica. Eppure, gli italiani furono costretti ad entrare nella seconda guerra mondiale. Conobbero lutti e devastazioni ed ancora, dopo 77 anni da quella sconfitta che dobbiamo al fascismo, scontiamo la non felice condizione di Paese a sovranità limitata. Piaccia o non piaccia ammetterlo, gli Stati Uniti d’America non sono soltanto il nostro principale alleato. Sono anche il nostro padrone.
Giorgia Meloni, nel contesto del Parlamento europeo, è presidente del gruppo dei Conservatori. La parola, in Italia, non ha mai avuto fortuna: il nostro è il Paese dei demagoghi e professarsi conservatori sembra una "deminutio". Vuoi mettere come suona meglio dirsi rivoluzionari, o riformatori, o progressisti? Eppure, secondo me, la prospettiva da perseguire è proprio quella di costituire anche in Italia un grande Partito conservatore. In generale, bisogna conservare le condizioni ambientali, climatiche, sociali, affinché il pianeta Terra continui ad essere un habitat favorevole alla vita del genere umano. Il che significa anche che la popolazione mondiale non può continuare a crescere illimitatamente. Che prima o poi bisogna convincersi che non si può continuare a promettere a tutti standard di vita elevati, sotto forma di diritti umani universali.
Nello specifico italiano, un partito conservatore dovrebbe puntare a risolvere quelli che sono i due mali storici del nostro Stato: il disordine organizzativo e l’inefficienza amministrativa. Gli italiani, presi singolarmente, spesso eccellono per i propri talenti e la propria creatività; non sanno, però, lavorare insieme. Mancano del più elementare senso di disciplina, per raggiungere obiettivi di interesse comune. Sono, tendenzialmente, anarchici.
Come già avvenne con la "Destra storica", ossia con l’élite politica che si riconosceva nelle politiche di Camillo Benso di Cavour e che governò fino al 1876, bisogna riprendere a coltivare l’ideale di uno Stato ordinato, efficiente, che non sprechi il denaro pubblico, ma anzi lo valorizzi. Uno Stato che sappia premiare i cittadini più laboriosi, meritevoli e capaci. Che, nel contempo, sappia reprimere e punire i malavitosi e i farabutti.
La scelta conservatrice ha tanto più ragion d’essere affinché si arrivi, finalmente, ad una vera riforma dell’Unione Europea. Io trovo profondamente illiberale che, in seno al Parlamento europeo (oggi, purtroppo, monocamerale), una maggioranza di tedeschi, di francesi, di italiani, di olandesi, di danesi e svedesi, possa imporre ad una minoranza di polacchi, di ungheresi, di slovacchi, quali disposizione di legge debbano adottare in materie eticamente sensibili, o con evidenti implicazioni religiose. Come il divorzio, l’interruzione volontaria della gravidanza, le unioni civili fra persone dello stesso sesso, l’adozione di bambini da parte di tali unioni, l’assunzione di droghe e sostanze psicotrope.
Si tratta di una visione "giacobina" del Parlamento europeo e dell’Unione europea. Io, invece, da storicista e da liberale, penso che sia sbagliato pensare che un’unica regola, perfettamente razionale (almeno, in apparenza), "illuminista", debba imporsi ovunque a tutti gli esseri umani.
Serve l’Europa delle Nazioni, o delle Patrie, già teorizzata da Charles De Gaulle. Bisogna che l’Unione Europea eserciti sul piano federale (o confederale, che dir si voglia) un certo numero di competenze. Le quali non possono essere esercitate a livello dei singoli Stati membri, perché la competizione globale in ambito internazionale non lo consente più. Mi riferisco alla moneta, all’approvvigionamento energetico, alla ricerca scientifica e tecnologica, alla protezione dell’ambiente, agli indirizzi fondamentali della politica commerciale, alla politica estera e della difesa. Per tutto il resto, ogni Stato membro deve essere perfettamente libero di governarsi come meglio ritiene, in coerenza con la propria storia, costumi e tradizioni. Ciò significa che uno Stato non possa cambiare? Certo che sì. Soltanto che lo deve fare liberamente. A nulla serve copiare i modelli stranieri. Commentando l’esperienza storica della Rivoluzione napoletana del 1799 Vincenzo Cuoco la definiva rivoluzione "passiva". Copiata dalla Francia, dove però esisteva una borghesia potente, consapevole del proprio ruolo sociale. Nulla di simile si riscontrava allora nel Napoletano.
I nostri attuali "giacobini", tipo Enrico Letta, continuano ad auspicare rivoluzioni "passive", in cui i presunti ideali di progresso si impongano con la forza a chi, secondo loro, è storicamente attardato.
Il Presidente Meloni riuscirà ad imprimere una svolta effettiva nella politica italiana? Può darsi di no; perché le difficoltà sono effettivamente molte e molto rilevanti. Anche la compattezza della maggioranza è tutta da dimostrare. Tentare, tuttavia, è sempre meglio che rassegnarsi al tran tran di cui il Partito Democratico è maestro.
Tra le principali cose che vorrei il governo Meloni facesse c’è quella di trovare soluzioni che consentano di arrestare i flussi di migranti dall’Africa alle nostre coste. Il ministro dell’Interno, Piantedosi, ha detto cose sensate, riprendendo una antica polemica con le navi utilizzate dalle Organizzazioni non governative (Ong).
Tutti hanno chiaro che i trattati e le convenzioni internazionali sul soccorso in mare sono per lo più richiamati a sproposito. Molti osservatori fingono di non accorgersi che si tratta di una fattispecie del tutto nuova. Quelle utilizzate dalle Ong non sono navi abilitate al trasporto passeggeri, previo pagamento di un prezzo, lungo rotte fisse e regolari. Non sono navi utilizzate per attività commerciali. Non sono pescherecci. Non sono imbarcazioni da "diporto". Stanno in mezzo al mare esclusivamente per finalità "umanitarie". In altre parole, non compiono salvataggi quando eccezionalmente ne ricorrano le condizioni; ma stanno lì apposta per organizzare salvataggi. Questa è la loro finalità istituzionale. Qualcuno, non a torto, ha paragonato queste navi a dei taxi.
Nel consorzio civile tutte le navi devono battere la bandiera di uno Stato. Il quale, in linea teorica, dovrebbe assumersi qualche responsabilità circa il loro operato. Altrimenti, si tratterebbe di navi "pirata".
La Norvegia e la Germania hanno concesso la propria bandiera alle quattro ultime navi che, cariche di immigrati, cercano attualmente di sbarcare nel porto di Catania. Norvegia e Germania, tuttavia, si guardano bene dal farsi coinvolgere nell’attività delle Ong che utilizzano le navi.
È un po’ troppo comodo. Basti considerare che le Ong sono organizzazioni private e la volontà di un’associazione privata non può (e non deve) prevalere sulla politica decisa da uno Stato sovrano. Vorrei vedere cosa accadrebbe se navi battenti altra bandiera scaricassero ingenti quantità di immigrati in Norvegia, contro il volere del governo norvegese, o in Germania, contro il volere del governo tedesco.
A differenza di quanto si ritiene, la soluzione non sta nel ripartire i migranti tra tutti i Paesi membri dell’Unione, in proporzione alla loro popolazione. Contro tale soluzione di maldestro automatismo si sono opposti formalmente gli Stati del cosiddetto "blocco di Visegrád", formato dall’Ungheria, dalla Polonia, dalla Repubblica Ceca, dalla Slovacchia e, in parte, dall’Austria. Per quanto mi riguarda, sono d’accordo con la linea di questi Stati.
Quindici Stati membri dell’Unione hanno una popolazione inferiore a dieci milioni di abitanti. Perché mai i singoli Paesi europei dovrebbero accettare di "snaturarsi", di perdere la loro natura tradizionale, la quale, magari, è molto antica? Perché mai dovrebbero accettare di farsi sommergere, progressivamente, da una marea umana rispetto alla quale i punti di contatto sono minimi (risolvendosi nella comune appartenenza al genere umano) e le differenze culturali sono pressoché infinite?
Per chi non conosca le caratteristiche demografiche degli attuali Stati membri dell’Unione europea, è opportuno ricordare che soltanto cinque Stati hanno una popolazione superiore a 35 milioni di abitanti: Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia. Questi Paesi potrebbero "resistere" per più tempo alla completa perdita della propria identità nazionale. Qualora, tuttavia, si affermasse definitivamente il presupposto ideologico secondo cui ogni essere umano (ciò significa, potenzialmente, oltre un miliardo di africani) abbia diritto di migliorare le proprie condizioni di vita e, quindi, di trasferirsi liberamente in altri Paesi più ricchi, civili e pacifici, anche i cinque Stati europei da ultimo richiamati avrebbero il destino segnato. Non ci sarebbe più l’Europa, ma un territorio che ha perso la sua fisionomia e le sue radici; non troveremmo più europei, ma una popolazione che ha in sé i caratteri di un "meticciato" universale. Prospettiva che può anche piacere ad alcuni; ma che, per quanto mi riguarda, respingo con la maggiore nettezza possibile.
Palermo, 6 novembre 2022 (Livio Ghersi)
Un bilancio su Mario Draghi.
Chi è più europeista? Chi è convinto che l’Unione Europea sia indissolubilmente legata agli Stati Uniti d’America e ne debba necessariamente condividere gli orientamenti (nelle politiche estera, della difesa, energetica, commerciale), oppure chi auspica che l’Unione Europea diventi un autonomo soggetto politico nello scenario internazionale? Ritengo di essere un europeista del secondo genere. Posto che, tanto a proposito, quanto più spesso a sproposito, si richiama il Manifesto di Ventotene, tengo a ricordare che Ernesto Rossi era un fautore dell’Unione Europea, ma, ad esempio, era contrario alla Nato.
La questione ha risvolti molto pratici. Numerosi commentatori hanno visto nella conclusione dell’esperienza del governo presieduto da Mario Draghi la fine del governo "più europeista" che l’Italia abbia espresso. Mi permetto di dissentire. Il presidente Draghi, appena sono iniziate le ostilità della Russia nei confronti dell’Ucraina, ha dato un’interpretazione di quella crisi perfettamente conforme alla lettura propria degli Stati Uniti d’America. Mentre il cancelliere tedesco Scholz, o il presidente della Repubblica francese, Macron, ogni tanto hanno ricordato che gli interessi di potenza propri degli Stati Uniti d’America e gli interessi economici della Unione Europea non sono necessariamente coincidenti, il presidente Draghi non ha mai avuto dubbi. Si è allineato su posizioni integralmente filoamericane. A partire dall’adesione entusiastica alla prospettiva che l’Ucraina entri a far parte dell’Unione Europea. Per quanto mi riguarda, sono in radicale disaccordo con le scelte compiute dall’Unione Europea nel merito della crisi ucraina. In un mio precedente articolo ho scritto che, a partire dalla data del 22 marzo 2022, mi consideravo ufficialmente all’opposizione rispetto al governo presieduto da Mario Draghi.
La posta in gioco va ben oltre la crisi ucraina. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1991, gli Stati Uniti d’America sono rimasti a lungo l’unica potenza globale. Così hanno finito per confondere i propri interessi di potenza con la legalità internazionale. La stessa concezione dei diritti umani è scaduta ad arma ideologica, con la quale "bastonare" tutti gli Stati "reprobi", ossia quelli che non si allineano al volere americano. La legalità internazionale imposta unilateralmente dagli Stati Uniti d’America non realizza alcuna esigenza di giustizia e di equità. Se sei uno Stato fedele alleato degli USA vieni giustificato e perdonato qualunque cosa abbia fatto; e, naturalmente, vieni protetto. Come non molti sanno, i cittadini degli Stati Uniti possono essere giudicati soltanto da corti statunitensi; non da corti di giustizia internazionali. Perché i diritti umani vanno tutelati e affermati, sì, ma sempre per gli altri.
Lo stesso sistema monetario è oggi largamente dominato dagli americani e dai loro più stretti alleati. Si pensi al sistema cosiddetto "Swift", acronimo di "Società mondiale per le telecomunicazioni finanziarie interbancarie". Si tratta di un’istituzione con sede a Bruxelles, in Belgio. Escludere uno Stato dal circuito Swift significa, tendenzialmente, rendere più difficili le transazioni interbancarie, cosicché i pagamenti che dovrebbero essere destinati a quello Stato siano molto ritardati, se non impediti del tutto. La conseguenza è che la Cina, la Russia, altri Paesi, stanno organizzandosi per attivare sistemi alternativi che consentano le transazioni interbancarie internazionali. C’è, quindi, un ordine internazionale che viene messo sempre più in discussione, da tutti i punti di vista.
Non auspico certamente che, al posto di un accettabile sistema di legalità internazionale, si instauri il caos. È fin troppo palese, tuttavia, che l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), non funzioni, non realizzi i suoi compiti di istituto e, così, come è al momento strutturata, sia nell’impossibilità di funzionare in modo efficiente. Servirebbe una molto significativa riforma dell’ONU. Ad esempio, eliminando i privilegi dei quali finora hanno goduto i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Privilegi legati alla circostanza che si trattava delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Sono trascorsi 77 anni dal termine della seconda guerra mondiale. È venuto il momento di pensare ad un differente assetto internazionale, capace di determinare un nuovo equilibrio; quindi la ripresa di relazioni il più possibile pacifiche.
Dal mio punto di vista, la riforma dell’ONU avrà un senso se verrà realizzata in modo da affermare il principio del multilateralismo: ossia se sarà frutto del consenso di una pluralità qualificata di Stati (ad esempio, una maggioranza qualificata di quelli che fanno parte del Consiglio di Sicurezza), consenso espresso secondo apposite procedure. Soltanto se determinata nella logica multilaterale, la legalità internazionale potrà definirsi veramente tale e, quindi, acquistare autorevolezza. Quanto alla ipotetica, futura, composizione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, esso, secondo, me dovrebbe ricomprendere stabilmente tutti gli Stati che, attualmente, fanno parte del Gruppo denominato "G20". Istituito nel 1999, comprendente gli Stati, di tutti i continenti, più rilevanti dal punto di vista economico e finanziario. Un certo numero di Stati, scelti periodicamente dall’Assemblea generale, mediante elezione, verrebbero poi ad integrare la struttura del Consiglio di sicurezza.
L’esperienza di Draghi quale presidente della Banca Centrale Europea (BCE) è stata molto positiva e ha portato vantaggi all’Italia. La palese "impoliticità" di Draghi nella veste di presidente del Consiglio dei ministri italiano, è stata altrettanto evidente. Il Presidente della Repubblica Mattarella ha ritenuto che il prestigio personale di cui godeva l’uomo Draghi fosse sufficiente per assicurargli la guida politica, in una situazione caratterizzata da un Parlamento italiano, questo della XVIII Legislatura, assai problematico, con forze politiche e gruppi parlamentari molto frammentati al proprio interno. Sarebbe servita una capacità di convincimento e di mediazione che il presidente del Consiglio uscente non aveva nelle proprie corde. Del resto, i talenti sono distribuiti: è difficile che una stessa persona sappia fare tutto.
È curioso che un sicuro democratico, quale il presidente della Repubblica Mattarella, abbia ormai dato ripetute prove della sua contrarietà ad andare ad elezioni anticipate, anche quando è stato palese che le Camere non potessero funzionare altrimenti che in modo disordinato e politicamente contraddittorio. Che democratico è chi ricorre ad ogni scusa, ad ogni pretesto, purché non si voti, come se le elezioni fossero un male in sé? Nel Regno Unito, culla della democrazia rappresentativa, oppure in Spagna, non si fanno certamente drammi, quando è necessario ricorrere ad elezioni anticipate.
C’è poi un ulteriore argomento da considerare. Molti fra gli iniziali oppositori di Draghi ritennero di avversarlo, quando fu nominato presidente del Consiglio, perché lo considerano un "banchiere", molto legato alla finanza internazionale; ossia un "liberista". Io allora tifavo per lui per i motivi esattamente opposti. Speravo potesse mettere ordine nei disastrati conti pubblici italiani; lavorare perché, passando attraverso una fase espansiva, non si perdesse di vista la necessità di ridurre il debito pubblico nazionale.
A me sembra che Draghi, in economia, si sia rivelato un puro "socialdemocratico", un keynesiano, se vogliamo nobilitare la cosa. Ciò spiega il naturale feeling che il Partito Democratico prova per lui. Gli ho sentito parlare di dovere di "protezione" che lo Stato italiano deve assicurare nei confronti di tutti i cittadini in condizione di sofferenza economica. Per realizzare la predetta "protezione", tutto va bene: dall’alleggerimento delle bollette per i consumi di energia, alla riduzione dell’accise sulla benzina, eccetera. Provvedimenti con efficacia limitata, nel contesto di una grave crisi internazionale; in cui la situazione economica può peggiorare, ma è difficile migliori a breve termine. Così si butta il denaro pubblico dalla finestra e, nel giro di sei mesi, i cittadini sono più in difficoltà di prima.
Non si sta dalla parte dello Stato perché questo ci "protegge" economicamente. Il dovere di una classe dirigente degna di questo nome è cercare di far sì che lo Stato sia sempre più in grado di servire in modo efficiente i cittadini (tutti i cittadini) realizzando riforme di grande respiro. A partire da una diversa strutturazione della scuola pubblica e dei contenuti del suo insegnamento. Oggi la scuola pubblica italiana può piacere soltanto ai demagoghi. L’ignoranza dilagante non fa certo bene, né allo sviluppo economico, né al funzionamento delle istituzioni democratico-rappresentative. Lo Stato italiano deve recuperare credibilità nei confronti del mondo finanziario internazionale. Quindi finirla con la politica economica basata sui bonus, sulle mancette e sui provvedimenti corto respiro. Tale politica, a ben vedere, ha senso esclusivamente in una logica clientelare. Non per cercare di costruire un futuro migliore per la comunità nazionale.
Per quanto riguarda, infine, l’ormai famoso Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), potrebbe rivelarsi un bel titolo; ma, in non pochi casi, con una distanza incolmabile fra obiettivi dichiarati e possibilità di realizzazione pratica. Si sa che noi italiani possiamo brillare per molte cose; ma la capacità organizzativa, l’efficienza amministrativa, ci fanno difetto. Sono il nostro maggior punto debole. La burocrazia finisce sempre per trionfare, perché nessuno vuole assumersi un minimo di responsabilità decisionale e tutti fanno a gara per "coprirsi le spalle" da potenziali vicende giudiziarie e per scaricare la responsabilità su altri.
Aggiungo che lo Stato italiano si dovrebbe amare, a prescindere dalla "protezione" economica. Perché ci sente parte integrante ed attiva di una comunità nazionale, che ha in comune una bellissima lingua, una letteratura importante e molto ricca, tanti esempi umani delle precedenti generazioni dai quali poter trarre insegnamenti. Storia, costumi, tradizioni, letteratura, amore per la lingua, sono appunto alcuni dei valori che una scuola pubblica bastarda ha azzerato.
Palermo, 21 luglio 2022 Livio Ghersi