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Partito politico membro di diritto del Movimento Europeo - Italia


Il Consiglio Italiano del Movimento Europeo, come facile evincere dalla nota a seguire, non approva le recenti intese raggiunte con il Governo della Tunisia e ritiene che quella intrapresa non sia la strada corretta da intraprendere per dare una risposta ai richiedenti asilo. Al riguardo, oltre a segnalare non il decrescere ma l'intensificarsi di sbarchi, mi permetto solo di porre in evidenza il vero problema che riguarda la mancanza di iniziative concrete e conseguentemente davvero utili ad eliminare alla radice le cause del fenomeno. L'Italia e l'Europa, di fatto, si sono rassegnate a tenere in vita un processo migratorio che è indice di barbarie in quanto condiziona la speranza di un approdo in Paesi civili ed accoglienti, al prezzo della morte per annegamento, spesso riservata a donne e bambini. Trattare con entità politiche che non hanno alcuna vocazione in favore del rispetto dei diritti umani è perfettamente inutile e, per gli impegni di spesa assunti, controproducente poichè accresce potenzialità indirizzate a finalità opposte. A mio sommesso avviso sarebbe necessario, innanzi tutto, organizzare una sessione di studio finalizzata ad individuare i Paesi maggiormente a rischio indicando, caso per caso, le motivazioni del disagio siano esse riconducibili a guerra, dispotismo, siccità, ovvero ad altre problematiche atte ad impedire la conduzione di una esistenza accettabile. Per l'indagine, si potrebbe far ricorso alle esperienze del volontariato, specie quello cattolico, al Corpo Diplomatico, agli inviati di testate giornalistiche ed agli studiosi dei problemi del Terzo Mondo ed ad ogni altra componente che abbia esperienza sul campo. Ottenuto un attento resoconto occorrerebbe: Realizzare subito, ove possibile in terra d'Africa, piazze europee di prima accoglienza, caratterizzate da un attento controllo sul rigoroso rispetto dei diritti umani; individuare corridoi umanitari praticabili per raggiungere in sicurezza dette piazze; offrire un immediato adeguato sostegno economico al volontariato in modo che possa ridurre le criticità dei luoghi, ampliare le strutture ricettive di cui dispone e/o crearne di nuove; adoperarsi con ogni mezzo per bloccare le forniture di armi preso i Paesi in guerra; trattare per consentire la realizzazione di opere pubbliche dando opportunità di lavoro sia alle popolazioni indigene che a professionisti ed imprese disponibili ed attrezzate per intervenire sui luoghi. Comprendo perfettamente che tutto quanto precede, e quant'altro ipotizzabile per salvare vite umane si scontra con una realtà complessa, tuttavia, l'aiuto ai richiedenti asilo se non è quello criticato dal Movimento con lo scritto che segue, non è neppure il mantenimento di un flusso migratorio che quotidianamente miete vittime innocenti, offre una immagine distorta della popolazione africana, e ne distrugge l'identità ed il prezioso legame con tradizioni ed abitudini di vita.         

22 luglio 2023                                                                           P. Dante 

 

 

 

MOVIMENTO EUROPEO
CONSIGLIO ITALIANO



APRIAMO UNA NUOVA FASE DELLE POLITICHE MIGRATORIE EUROPEE FONDATE SUI DIRITTI


L’idea di fermare i flussi migratori di donne, minori e uomini - che fuggono da regioni dove si muore di guerre, di fame, di disastri ambientali e di espropriazione delle terre ai contadini per introdurre le stesse forme di agricoltura intensiva che stanno distruggendo l’ambiente dei paesi sviluppati - sta conquistando progressivamente quasi tutti i governi dell’Unione europea che adottano o diffondono la falsa narrazione secondo cui questi flussi superano largamente le nostre capacità economiche, sociali e culturali di accoglienza, di ospitalità e di integrazione.
A questa narrazione si associa l’idea secondo cui l’aumento dei flussi migratori è provocato dai fattori di attrazione (pull factor) delle nostre politiche migratorie e non dai fattori che spingono le persone a fuggire (push factor) e che i flussi devono essere bloccati all’origine o, meglio, nei paesi di transito verso l’Unione europea che, ipocritamente, i governi considerano come “paesi sicuri”.
Sulla base di questa narrazione, la Commissione europea ed il Consiglio hanno condiviso, facilitato o promosso accordi prima con la Turchia e poi con la Libia per non parlare del Ciad e del Niger dove è noto che le persone che hanno diritto alla protezione internazionale vengono sottoposte a trattamenti disumani nel più totale disprezzo del diritto internazionale e della Carta dei diritti fondamentali che pure si applica ai richiedenti asilo.
Il recente memorandum di intesa fra l’Unione europea e la Tunisia firmato a Cartagine da un eterodosso e auto-costituitosi “Team Europa” - considerato da Giorgia Meloni come un grande successo del governo italiano ma anche un modello per le relazioni con l’Africa e avallato nello stesso tempo da Ursula von der Leyen in cerca di una sua rielezione alla presidenza della Commissione europea e dall’uscente primo ministro olandese Mark Rutte – non solo è scritto sulla sabbia perché l’assistenza finanziaria europea alla Tunisia è per ora perlomeno ipotetica essendo condizionata da un ancor più ipotetico accordo con il FMI ma perché è fondato sul sostegno al governo tunisino screditato a livello internazionale e sulla violenta operazione di blocco navale sulle coste tunisine condotta da Matteo Piantedosi e dal suo collega di Tunisi Kamel Fekih.
Per ora nessuno a Bruxelles, a Strasburgo, a Vienna o a Varsavia o a Ginevra - né il Consiglio, né il Parlamento europeo, né l’Agenzia europea per i diritti fondamentali, né Frontex, né l’UNHCR per l’Europa – ha autorizzato o avallato il memorandum di intesa ed anzi il Parlamento europeo ha adottato recentemente una risoluzione in cui si condanna duramente la politica europea nel Mediterraneo in violazione delle norme internazionali ed europee.
In questi giorni a Tunisi si riuniscono molte organizzazioni non governative per condannare le politiche europee adottate in violazione dei diritti umani e denunciare le violenze del regime di Al-Saied mentre a Roma si svolge l’Africa Counter Summit sul tema “Niente accordi sulla nostra pelle” in contemporanea con la Conferenza internazionale sulle migrazioni convocata a Roma dal governo italiano per consolidare e rendere più rigida la politica del blocco dei flussi dei richiedenti asilo in una linea di inaccettabile continuità con gli accordi bilaterali sottoscritti con la Turchia, con la Libia ed ora con la Tunisia. In contemporanea, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione (ASGI) ha diffuso un testo di denuncia contro il memorandum di intesa siglato tra l’Unione europea e la Tunisia1.
Il Movimento europeo condivide la condanna e la denuncia delle organizzazioni non governative e chiede al Parlamento europeo di esigere dalla Commissione europea di rinunciare al memorandum di intesa con la Tunisia per aprire una nuova fase delle politiche migratorie europee fondate sulla dignità umana e sul rispetto dei diritti fondamentali.
Roma, 21 luglio 2023

 

MOVIMENTO EUROPEO
CONSIGLIO ITALIANO

 

 

PERSONAGGI EUROPEI IN CERCA D’AUTORE

Di Pier Virgilio Dastoli - Presdente del Movimento Europeo Italia 


Nel 2005 e all’indomani della fine del progetto di Trattato costituzionale, partorito da quel corpo estraneo ai trattati che decise di auto-chiamarsi “convenzione” e che i governi vollero storpiare in un patchwork giuridicamente contraddittorio fra una parte breve di diritto primario ed una parte insopportabilmente lunga di diritto secondario, Giuliano Amato – che era uno dei genitori (molti padri e qualche madre) della parte breve – disse che
“quello che ha preso corpo è un processo di crescente ibridazione fra il maschio Trattato e la femmina Costituzione che tuttavia non è giunto alla trasformazione dell’uno nell’altra ma ha portato alla formazione di un ermafrodito. E l’ermafrodito (che oggi vuole essere chiamato “intersessuale”, n.d.r.) ha finito per pretendere e ancora oggi pretende di essere riconosciuto e accettato come tale”.
La sceneggiata, che alcuni “personaggi in cerca di autore” stanno recitando sul palcoscenico europeo in vista delle elezioni europee fra il 6 e il 9 giugno 2024, è in qualche modo l’innesto ermafroditico fra il maschio-Trattato – di cui i governi continuano ad essere i “signori” – e la femmina-Costituzione concepita dalla Convenzione ma incapace di sopprimere il maschio come il fuco muore invece dopo l’accoppiamento con l’ape regina.
Cerchiamo di far luce, nella misura del possibile, fra le nebbie provocate dall’ancora embrionale campagna elettorale europea - incardinata nelle logiche nazionali - e dallo sforzo sovrumano di molti giornalisti che vorrebbero imporre all’ermafrodito europeo le logiche nazionali, fondate sulla contrapposizione fra maggioranze uscenti e opposizioni che aspirano a diventare maggioranza.
In primo luogo, le elezioni europee avranno luogo sulla base di ventisette leggi elettorali nazionali in competizioni nazionali fra leader e candidati nazionali in assenza di interazioni europee perché – salvo rare eccezioni - non ci saranno candidati provenienti da altri paesi europei, non ci saranno le liste transnazionali chieste dal Parlamento europeo, una percentuale irrisoria di elettori voterà al di fuori del proprio paese e le regole di voto differiranno da paese a paese come l’elettorato attivo al sedicesimo anno di età in sei Stati e a diciotto anni negli altri ventuno.
Il Trattato di Lisbona afferma che “tenuto conto delle elezioni europee (ma stranamente non del loro risultato) e dopo aver fatto le consultazioni appropriate (senza precisare con chi e perché), il Consiglio europeo, decidendo alla maggioranza qualificata (e cioè con il voto favorevole del 55% degli Stati membri pari ad almeno 15 Stati membri su 27 ed il 65% della popolazione europea e cioè almeno duecento novanta milioni di cittadine e cittadini su 450 milioni) propone al Parlamento europeo un candidato alla presidenza della Commissione. Questo candidato è eletto dal Parlamento europeo alla maggioranza (assoluta e cioè 353 membri) dei membri che lo compongono”.
Il Trattato prevede anche che nel Consiglio europeo si possa formare una “minoranza di blocco” di quattro paesi sapendo che, quando tutti gli Stati membri tranne tre votano a favore, la maggioranza qualificata si considera ugualmente raggiunta anche se i 24 Stati membri che votano a favore rappresentano meno del 65% della popolazione globale.
E’ difficile oggi prevedere quale sarà la composizione politica del Consiglio europeo a fine giugno 2024 - considerando le scadenze elettorali legislative in Spagna, Polonia, Slovacchia, Lussemburgo, Belgio e Bulgaria per non parlare delle elezioni presidenziali in Slovacchia, Polonia, Lituania, Finlandia e Croazia - ma è possibile immaginare che gli ipotetici schieramenti di centro-destra (e cioè i governi a trazione PPE e/o ECR) e quelli di centro-sinistra (e cioè i governi a trazione S&D o ALDE talvolta in alleanza con i Verdi) possano costituire ciascuno una minoranza di blocco nel caso in cui l’uno o l’altro schieramento cerchi di imporre un proprio candidato alla presidenza della Commissione e che, dunque, i capi di Stato e di governo saranno costretti - obtorto collo e con un accordo inimmaginabile a livello nazionale che provocherebbe forti tensioni nei paesi in cui anche l’estrema destra è al governo - a scegliere un candidato di una grande coalizione che comprenda sia i conservatori (ECR), o almeno alcuni di essi, sia i socialdemocratici con i liberali fra gli uni e gli altri e Germania e Francia in condizione di avvicinarsi alla soglia del 35% della popolazione globale europea.
La decisione del Consiglio europeo è condizionata inoltre dall’incertezza che pesa sulla volontà dei gruppi politici nel Parlamento europeo di ripetere nel 2024 il metodo - non previsto dal Trattato di Lisbona ma proposto dal leader SPD Martin Schulz nel 2013 nell’illusione che i socialisti avrebbero superato i popolari alle elezioni europee nel 2014 - di presentare alle elezioni europee dei candidati-leader (Spitzenkandidaten) alla presidenza della Commissione europea.
Il metodo fu apparentemente applicato nel 2014 nella scelta del lussemburghese Jean-Claude Juncker, che fu il frutto invece di accordo preelettorale franco-tedesco gestito da Angela Merkel e accantonato nel 2019 quando ancora Angela Merkel preferì al bavarese Manfred Weber la fedele Ursula von der Leyen.
La stessa Ursula von der Leyen, che vorrebbe restare al Berlaymont dal 2024 al 2029 per gestire i negoziati con i paesi candidati all’adesione e in particolare l’ingresso dell’Ucraina nell’UE, sa bene che la sua conferma nel Consiglio europeo di fine giugno 2024 sarebbe facilitata da una nuova “maggioranza Ursula” e sarebbe resa invece più difficile se accettasse di essere la Spitzenkandidatin del PPE o, peggio ancora, se fosse la candidata di una coalizione PPE-ECR, comunque minoritaria nell’attuale e nel futuro Parlamento europeo.
Le pene di Ursula von der Leyen o di un altro candidato-presidente non finiranno dopo l’eventuale accordo nel Consiglio europeo perché la scelta dei capi di Stato e di governo dovrà essere confermata dall’elezione a maggioranza assoluta nel Parlamento europeo che avvenne nel 2019 per Ursula von der Leyen con soli nove voti di scarto.
Dopo di che, il candidato o la candidata alla presidenza della Commissione europea dovrà presentarsi di nuovo davanti alla assemblea con il suo “collegio” e cioè con ventisei commissari scelti di comune accordo con i governi nazionali, dove quelli a trazione PPE sceglieranno un popolare, quelli a trazione S&D un socialista, quelli a trazione ALDE un liberale, quelli a trazione ECR un conservatore a meno che in un governo di centro-sinistra prevalga un commissario appartenente ai Verdi.
L’unico, ma consistente, margine di manovra del Presidente o della Presidente della Commissione starà nella distribuzione dei “portafogli” e cioè di quelli che chiameremmo, in una logica nazionale, gli incarichi ministeriali dove il Parlamento europeo si è tuttavia auto-attribuito un potere di veto che costò il posto di commissario a Rocco Buttiglione nel 2009.
Qui finisce la sceneggiata preelettorale con un copione che deve ancora essere in buona parte scritto ma in cui appare molto impervia la strada di coloro che immaginano di “rovesciare il tavolo” nel 2024 e conquistare il “governo dell’Europa” ad uso e consumo dei sovranisti.
La vita della legislatura 2024-2029 sarà invece soggetta ad un altro copione e dipenderà dagli equilibri politici fra i gruppi politici nel prossimo Parlamento europeo.
Se la nomina della Commissione europea sarà condizionata dalla ricerca di una larga maggioranza, l’attuazione delle priorità politiche e legislative della nuova legislatura europea sarà invece il frutto della contrapposizione fra innovatori e immobilisti sulle politiche da realizzare e sul processo che porterà inevitabilmente – prima dell’allargamento dell’Unione europea – al superamento dell’ermafrodito insito nel Trattato di Lisbona.
Ne sapremo qualcosa di più dopo le elezioni in Spagna, Polonia, Lussemburgo, Slovacchia, Bulgaria e Belgio che ci indicheranno gli orientamenti di quegli elettorati.
Il seguito alla prossima puntata!
Ventotene, 5 luglio 2023                                          Pier Virgilio Dastoli

 

 

 

MOVIMENTO EUROPEO
CONSIGLIO ITALIANO


L’Unione europea, la guerra in Ucraina e le vie della pace

Di Pier Virgilio Dastoli - Presdente del Movimento Europeo Italia 


Ci sarebbero apparentemente diverse vie che potrebbero condurre a mettere fine alla guerra che è stata decisa da Vladimir Putin contro l’indipendenza e l’inviolabilità del territorio dell’Ucraina così come essa si è ricostituita in Repubblica semipresidenziale dopo la fine dell’URSS nel 1991 essendo uscita dall’impero russo nel gennaio 1918.
La prima via è quella indicata dalle autorità dell’Ucraina ed esige la liberazione di tutti i territori illegittimamente occupati dai soldati russi dopo il 24 febbraio 2022, una liberazione che comprende anche la Crimea invasa dalla Russia nel marzo 2014 - autoproclamatasi come Repubblica indipendente dopo l’azione golpista di un partito minoritario filorusso sostenuto da truppe russe entrate nel paese senza insegne - a cui seguirono le dichiarazioni unilaterali di indipendenza dell’oblast’ di Doneck e di Luhans’k.
L’invasione russa e le dichiarazioni unilaterali non avevano nulla a che fare con i principi di diritto internazionale sulla “autodeterminazione dei popoli” che si applicano solo in caso di colonizzazione, di occupazione straniera con la forza e di apartheid e che non possono dunque riguardare la situazione dell’Ucraina dopo il 1991.
Come si sa, l’obiettivo della “operazione militare” della Russia era inizialmente quello di “liberare” le regioni considerate da Mosca come parte della “grande Russia” ma anche quello di far cadere il governo considerato “nazista” di Zelensky sostituendolo con un governo filorusso come era avvenuto in Crimea e come la Russia vorrebbe ottenere in Moldavia e in Georgia secondo la logica imperialista di Putin.
Questa via implica la vittoria dell’Ucraina costringendo le truppe russe ad arretrare al di là della frontiera dopo la preannunciata controffensiva di Kiev e ad arrendersi aprendo la strada ad uno reciproco scambio di prigionieri nel rispetto del diritto internazionale.
Questa via è considerata dal governo dell’Ucraina come una condicio sine qua non per sedersi di nuovo ad un tavolo negoziale, dopo il fallimento dei primi incontri bilaterali che ebbero luogo in Turchia un anno fa su iniziativa del presidente turco Erdogan, quando saranno definite le condizioni per un eventuale accordo di pace su cui dovrà esprimersi il parlamento ucraino che sarà eletto prima dell’estate del 2024.
L’idea di una vittoria dell’Ucraina è del resto condivisa solo con qualche eccezione dai suoi alleati nella NATO, nell’Unione europea e da alcuni paesi terzi che la sostengono finanziariamente e militarmente avendo essi, tuttavia, escluso fin dall’inizio un intervento diretto militare nel conflitto.

Il ritorno all’indipendenza dell’Ucraina con la liberazione delle zone occupate dai russi dopo il 24 febbraio, della Crimea, del Doneck e di Luhans’k è coerente con l’idea che le frontiere nazionali così come oggi sono riconosciute dalla comunità internazionale non possono essere violate da paesi terzi perché questo sarebbe in contrasto con il diritto internazionale, come codificato dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, pur sapendo che le Nazioni Unite dispongono solo in teoria di strumenti di peace enforcement per impedire queste violazioni e ripristinare la situazione precedente alle violazioni.
L’aggressione della Russia all’Ucraina ha sconvolto il sistema di cooperazione e di sicurezza in Europa così come si è andato configurando dagli accordi di Helsinki del 1975 fino alla Carta di Parigi del 1990 e poi con la fine dell’Unione Sovietica nel 1991 e che ha determinato la libera scelta dei paesi che erano sottomessi all’imperialismo sovietico - o perché facenti parte dell’Unione sovietica o perché legati al COMECON e al Patto di Varsavia - di aderire ad altre alleanze e organizzazioni come la NATO e l’Unione europea.
Quel sistema deve essere ripristinato ed anzi rafforzato aprendo la via ad un nuovo accordo (“Helsinki-2”) perché questo è l’interesse dell’Unione europea nel suo insieme come contributo alla pace sul continente e al processo di pace nelle regioni vicine nel quadro di un sistema di cooperazione internazionale che richiederà una riforma delle regole delle Nazioni Unite da discutere nel “Summit sul futuro” convocato a New York dal Segretario Generale Guterres dal 22 al 23 settembre 2024 e che potrebbe essere evocato il 1° giugno in occasione del secondo vertice dei 47 leader della Comunità Politica Europea (CPE) che si riunirà a Chisinau, la capitale della Moldavia.
È questa la ragione per cui il Movimento europeo ha suggerito delle ipotesi per avviare un percorso di pace alla vigilia di due importanti missioni internazionali come quella affidata da Jorge Bergoglio a Matteo Zuppi e quella affidata dall’Unione africana a sei capi di Stato di quel continente.
Le nostre ipotesi fanno parte di un unico mosaico ed abbiamo invitato tutti gli attori che agiscono a vario titolo sul terreno del conflitto in Ucraina ad esaminarle ed esprimere la loro opinione considerandole delle tessere indissociabili di quest’unico mosaico:
- l’inviolabilità e l’indipendenza dell’Ucraina riconosciuta dalla comunità internazionale nel 1991 dopo la fine dell’Unione Sovietica
- il rispetto di tutte le minoranze etnico-linguistiche secondo forme di autonomia - che potrebbero essere definite “federali - ispirandosi all’accordo di Parigi sull’Alto Adige del 4 settembre 1946 e come esempio per assicurare i diritti delle molte persone che appartengono in tutto il nostro continente a delle minoranze dal Nord al Sud, dall’Est all’Ovest dell’Europa come è sancito fra i valori comuni iscritti nell’art. 2 del Trattato sull’Unione europea e come appare urgente e necessario dopo gli scontri tra forze NATO e manifestanti serbi a Zvecan in Kosovo il 29 maggio

- la decisione di voler appartenere (o di voler permanere) nella comunità nata nel 1950 e sviluppatasi in una unione democratica e solidale rispettandone i principi e le ragioni del destino comune che riguardano la sovranità condivisa e dunque la rinuncia alla sovranità assoluta, lo stato di diritto e il primato del diritto dell’Unione, la solidarietà e la cooperazione leale, l’impegno ad una unione sempre più stretta, la preservazione e lo sviluppo delle diversità delle culture, le responsabilità e i doveri fra Stati, fra persone e verso la comunità umana e le generazioni future così come affermato nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali
- un processo di unificazione europea equilibrato che coinvolga nello stesso tempo tutti i paesi candidati, che si concluda nel rispetto delle regole dell’Unione europea e con l’accordo di tutti i paesi membri chiamati a definire un preliminare aggiornamento attraverso un processo democratico costituente al fine di garantirne l’efficacia e la dimensione democratica come è stato suggerito dai governi francese e tedesco nella riunione informale del Sofitel a Bruxelles dei ministri degli affari europei il 29 maggio
- l’adesione ad un’Unione europea, che garantisce l’aiuto e all’assistenza ai suoi membri nel caso di un’aggressione armata e che si impegni nello stesso tempo a facilitare la pace e la cooperazione in tutto il continente e nel mondo
- l’ingresso nell’Unione europea dell’Ucraina e poi della Moldavia e della Georgia sulla base delle stesse condizioni dell’adesione dell’Austria come paese neutrale nel 1995 e, per conseguenza, la decisione di non aderire a nessuna organizzazione o struttura militare. Gli stessi criteri potrebbero essere applicati alla Serbia, alla Bosnia Erzegovina e al Kosovo in vista dell’esame delle loro domande di adesione all’Unione europea.
Nello spirito e in coerenza con l’impegno a favore della pace, l’Unione europea dovrebbe sottoscrivere il Trattato internazionale per la proibizione delle armi nucleari (TPNW) entrato in vigore il 22 gennaio 2021 con 68 adesioni e la cui applicazione era stata sollecitata nel settembre 2020 da 56 ex presidenti, ex primi ministri e ex ministri di Stati membri della NATO che avevano ribadito che “le armi nucleari non servono a nessuno scopo militare o strategico legittimo viste le conseguenze umane e ambientali catastrofiche di qualsiasi loro uso”.
Roma, 30 maggio 2023                                              Pier Virgilio Dastoli

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Qatargate, diritti fondamentali e democrazia europea

Di Pier Virgilio Dastoli - Presdente del Movimento Europeo Italia 


Il 10 dicembre è stata la giornata internazionale dei diritti fondamentali che si celebra ogni anno per ricordare la Dichiarazione universale proclamata dalle Nazioni Unite nel 1948.
Questa giornata internazionale ha paradossalmente coinciso con l’esplodere del cosiddetto Qatargate e cioè con le informazioni diffuse dalla Procura federale belga sull’inchiesta avviata cinque mesi fa per una serie di azioni criminose secondo cui “gli inquirenti della polizia giudiziaria sospettano che uno Stato del Golfo abbia cercato di influenzare le decisioni economiche e politiche del Parlamento europeo”. “Sono stati sequestrati contanti per seicentomila euro oltre a materiale informatico e telefoni cellulari” ha aggiunto la Procura federale belga.
Nonostante il carattere molto scarno del comunicato, ambienti vicini alla Procura federale belga si sono immediatamente attivati per informare i due maggiori quotidiani belgi francofono e fiammingo sull’identità dei fermati, sul numero e sulle località delle perquisizioni, sui capi d’accusa e sul nome dello Stato del Golfo che avrebbe esercitato il tentativo di influenza: ciò in pieno disprezzo – come avviene purtroppo in molti paesi europei a cominciare dall’Italia nei rapporti di “buona collaborazione” fra la magistratura o le cancellerie e la stampa – delle ragioni che dovrebbero essere alla base degli avvisi di garanzia e della presunzione di innocenza.
L’azione ultra vires della Procura federale belga ha avuto l’effetto immediato di aprire un processo mediatico nei confronti non solo degli indagati/fermati ma di tutto il Parlamento europeo: “sécoué – scrive Le Monde – par un Qatargate”; “soldi del Qatar al Parlamento europeo” (Il Sole 24 Ore); ancor di più “Eurocorruzione” aggiungendo che “il Qatar ha corrotto la democrazia europea” (La Repubblica).
A proposito di presunzione di innocenza vale la pena di sottolineare che la Procura si è attivata il 9 dicembre perché fossero diffusi sulla stampa i nomi dei fermati (6) ma che non ha usato la stessa premura e sollecitudine perché fosse diffusa sulla stampa la notizia che uno dei fermati (Luca Visentini) era stato liberato seppure sous conditions.
Il Movimento europeo condanna senza riserve le azioni dei corrotti – quando esse saranno provate - e ritiene che l’opinione pubblica europea debba essere rapidamente e ampiamente informata sulle dimensioni non solo finanziarie della corruzione ma anche sugli effetti delle azioni dei corrotti nelle decisioni “economiche e politiche” del Parlamento europeo relative alla denuncia delle violazioni del rispetto dei diritti fondamentali nel Qatar e più in generale negli Stati del Golfo.
Il Movimento europeo prende anche atto con soddisfazione delle sanzioni prese con estrema rapidità dal Parlamento europeo attraverso la propria presidente Roberta Metsola, dal Gruppo S&D e dal Pasok nei confronti della vicepresidente Eva Kaili e si attende che la stessa fermezza e la stessa rapidità siano adottate nei confronto di altri eventuali indagati appartenenti a qualsiasi titolo all’istituzione così come la totale estraneità dell’ETUC alle ipotesi di corruzione su cui indaga la magistratura belga.
Noi invitiamo a leggere con attenzione la risoluzione “sui diritti umani nel contesto della Coppa del Mondo FIFA 2022 nel Qatar” approvata dal Parlamento europeo il 24 novembre 2022 a Strasburgo frutto di un compromesso raggiunto fra Renew Europe, PPE, S&D e ECR.
Nella risoluzione si condannano le morti (quelle che in Italia vengono chiamate ipocritamente “incidenti sul lavoro”) e le violenze di cui sono stati vittime i lavoratori nella preparazione dei campionati del mondo di calcio, le discriminazioni nei confronto di centinaia di migliaia di migranti, la mancanza di trasparenza e di responsabilità della FIFA nelle scelta del Qatar avvenuta nel 2010, la lunga storia di corruzione “rampante e sistemica” della FIFA che ha gravemente danneggiato l’immagine e l’integrità del calcio, l’assenza del rispetto dei diritti fondamentali e dei principi dello stato di diritto da parte degli sponsor delle manifestazioni sportive, la mancanza di una riforma profonda delle regole per l’attribuzione delle sedi dei campionati del mondo di calcio e di una informazione trasparente sull’attribuzione del campionato 2022 al Qatar e il mantenimento della pena di morte nel Qatar (dove è in vigore la legge islamica della Sharia, n.d.r.).
Si deve invece sottolineare che un approccio più flessibile nel giudicare lo stato della protezione dei diritti nel Qatar ed in particolare dei lavoratori migranti (come si riscontra dal Testo della Risoluzione) sembrerebbe derivare soprattutto dal fatto che sia l’ILO che l’ITUC hanno considerato le riforme adottate dal Qatar come un “esempio” per gli altri Stati del Golfo e che quindi varrebbe la pena di indagare sull’influenza del Qatar all’interno di queste due organizzazioni internazionali.
La magistratura belga e con essa le magistrature degli altri paesi europei possono e debbono agire con pene esemplari contro i corrotti europei e le istituzioni europee possono e debbono accompagnare le pene giudiziarie con sanzioni amministrative congelando e poi cancellando i diritti finanziari maturati da membri delle istituzioni così come la Commissione e il Consiglio dovranno indagare per verificare se ci sono stati tentativi di influenze illegali al proprio interno.
La vicenda del Qatargate deve permettere tuttavia di lanciare un forte allarme non solo sulla presenza dei corrotti ma anche sull’azione dei corruttori e cioè delle lobbies che agiscono da paesi al di fuori dell’Unione europea sapendo che la regolamentazione e la trasparenza sulle lobbies europee deve essere rafforzata e completata con un accordo interistituzionale ma che non c’è nessuna regola e nessuna misura per impedire l’azione e le ingerenze di lobbies extra-europee. Una pronta reazione del Parlamento all’accaduto con il varo di misure preventive ed efficaci a tutela dell’autenticità e dell’autonomia delle procedure di formazione della volontà collettiva dell’organo a mandato universale dei cittadini europei sarebbe la prima, doverosa, risposta all’ attuale turbamento dell’opinione pubblica continentale, nell’attesa che la Magistratura chiarisca la reale entità dei fatti.
Il Movimento europeo chiede infine al Parlamento europeo di creare una commissione di inchiesta sul Qatargate a partire dalla lista di denunce e di condanne contenute nella risoluzione del 24 novembre 2022.


Bruxelles, 11 dicembre 2022
                                                                               Pier Virgilio Dastoli

 

 

 

 

IL DISALLINEAMENTO EUROPEO DEL GOVERNO MELONI

 

Di Pier Virgilio Dastoli - Presdente del Movimento Europeo Italia 

 


Il leader di Azione Carlo Calenda ha certificato, dopo un lungo incontro a Palazzo Chigi con il Presidente del Consiglio, che “Giorgia Meloni è una persona seria” e che la sua storia (che lo “affascina”) lo predispone positivamente “dal punto di vista della chimica”.
Carlo Calenda ha anche ribadito che Azione non entrerà nella maggioranza di governo e, conoscendo la linearità del suo percorso politico, potremmo cercare di credere in quello che egli afferma!
Il compito del Movimento europeo è invece quello di valutare, giorno per giorno, la linearità o il disallineamento del percorso europeo del Presidente del Consiglio e dei suoi ministri sulle questioni nell’agenda dell’Unione europea lasciando per ora da parte l’analisi sulle sue convinzioni “confederali” e, dunque, di un futuro dell’Europa in cui gli Stati nazionali avrebbero un ruolo prevalente ancor più invadente di quanto è avvenuto dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona tredici anni fa con il pre-potere del Consiglio europeo.
Il primo tema è quello del governo dei flussi migratori su cui la campagna di disinformazione e di intossicazione dell’attuale ministro dell’interno Matteo Piantedosi e del suo predecessore Matteo Salvini dal 1° giugno 2018 al 5 settembre 2019 così come l’intervento di Giorgia Meloni al Rome Med Dialogues 2022 si è infranta contro i dati incontrovertibili delle organizzazioni internazionali ed europee e contro l’obbligo di salvare le vite umane nel Mediterraneo sancito da convenzioni internazionali e dall’Unione europea.
Si inserisce in questa campagna l’ostilità del governo Meloni - ma anche del governo Conte-2 con il cosiddetto “accordo di Malta” del settembre 2019 - nei confronti delle organizzazioni non governative (ONG) considerate come un fattore di spinta (pull factor) dei flussi di migranti illegali, una tesi respinta non solo dal Parlamento europeo ma ora anche dalla Agenzia Frontex e dalla sua nuova direttrice Aija Kalnaja dopo le dimissioni del suo predecessore Francis Leggeri accusato di aver coperto respingimenti di massa di richiedenti asilo compiuti dal personale di Frontex e da alcuni Stati membri.
L’Italia si è disallineata rispetto alle posizioni di Francia, Germania e Spagna ma anche della Commissione europea e, naturalmente, della grande maggioranza del Parlamento europeo con l’eccezione dei gruppi politici dove siedono i parlamentari di Fratelli d’Italia e della Lega.
Sulla questione dei flussi migratori, del resto, il disallineamento non riguarda solo la dimensione europea ma l’idea di una civiltà che accoglie e non respinge, di una società che include e non esclude, di culture che si rispettano.
Il messaggio che Giorgia Meloni ha lanciato dal Rome Med Dialogues 2022, oltre alla ripetizione ossessiva del ruolo delle “nazioni”, è stato quello dei respingimenti e dei rimpatri in assenza di qualunque riferimento alle cause delle migrazioni ignorando nello stesso tempo la dimensione delle rotte migratorie che coinvolgono tutto il continente europeo in un quadro mondiale dove i popoli che trasmigrano (i déracinés) lo fanno in primo luogo all’interno dei propri paesi poi verso i paesi vicini quindi verso i paesi in via di sviluppo e solo in ultima istanza verso i paesi sviluppati.
La proposta di un finanziamento di 100 miliardi di euro lanciata da Antonio Tajani per ora in una intervista e ripresa da Giorgia Meloni come un “piano Mattei” (dal nome del fondatore dell’Eni Enrico Mattei, che prevedeva agli inizi degli anni ‘60 uno schema di cooperazione nel mercato petrolifero con un rapporto diretto fra paese produttore e paese consumatore e che dunque non ha nulla a che fare con l’attuale ed eventuale iniziativa italiana) andrebbe nella direzione dell’obiettivo dei respingimenti e dei rimpatri senza precisare se i finanziamenti sarebbero destinati ai paesi del Nord Africa che “accolgono” i migranti dall’Africa sub-sahariana o ai paesi di tutto il continente africano.
La somma indicata da Antonio Tajani non tiene del resto conto del fatto che l’Unione europea e i 27 paesi membri hanno speso nel 2021 settanta miliardi di euro in aiuti ai paesi in via di sviluppo, che questi aiuti corrispondono allo 0.49% de PIL globale dell’Unione europea (pari nel 2021 a 14.500 miliardi di euro), che si è deciso di aumentarli entro il 2030 fino allo 0.7% ancor al di sotto di quell’1% considerato come la soglia minima da raggiungere e che gli aiuti dovrebbero essere finalizzati allo sviluppo economico del continente e non a sostenere le azioni di repressione dei flussi migratori.
Vedremo come si orienteranno i ministri dell’interno e della giustizia nella riunione dell’8 dicembre a Bruxelles, se ci saranno delle decisioni sulle proposte della Commissione europea che dovranno poi essere discusse e approvate dal Parlamento europeo e se Matteo Piantedosi potrà esprimere ancora una volta la sua “personale soddisfazione”.
Il secondo tema è quello del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), su cui si innesta la domanda di una sua revisione rivendicata da Giorgia Meloni durante la campagna che ha preceduto le elezioni legislative del 25 settembre e che è stata riproposta con linguaggio diverso da vari ministri italiani negli incontri a Roma con la missione della Commissione europea e a Bruxelles nelle riunioni ministeriali.
Il ministro dell’agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha affermato ad esempio che “il PNRR era un piano fatto in fretta e in furia per spendere e, a volte, non per farlo bene. All’Europa chiediamo la possibilità di rimodulare le risorse e i tempi rispetto alle vere domande dei territori e delle imprese sapendo che modificare il PNRR era un tabù demagogico solo per la sinistra”.
Da parte sua, il ministro per gli affari europei, Raffaele Fitto, ha detto che il governo Meloni sta “definendo gli obiettivi al 31 dicembre e dall’altra sta lavorando ad una visione strategica di carattere generale sull’intero programma immaginando implementazioni dello stesso programma in base ai nuovi scenari”.
Di fronte a queste dichiarazioni, la Commissione europea ed in particolare il commissario all’economia Paolo Gentiloni hanno ribadito che la sola rimodulazione possibile è quella legata al raggiungimento degli obiettivi del REPowerEU per conseguire il risparmio energetico, la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e l’accelerazione verso l’energia pulita sapendo che non è previsto nessuno slittamento al di là del 31 dicembre 2026 e che l’attuazione delle riforme nazionali non discende da rigide regole europee ma dal rapporto di causa ed effetto fra le riforme da una parte e la capacità di un paese di rilanciare la propria economia e di essere resiliente.
Queste riforme, come ci ha ricordato Romano Prodi nel suo editoriale domenicale, riguardano fra i capitoli più importanti i servizi pubblici locali ed il sistema giudiziario, l’eliminazione del lavoro nero, un progetto comprensivo di digitalizzazione e la lotta all’evasione fiscale sapendo che “gli interlocutori europei non sono soddisfatti su come si sta camminando in queste direzioni”.
I paesi europei che hanno presentato alla Commissione europea i loro piani di ripresa e di resilienza (PNRR) pagano del resto le conseguenze della decisione collettiva presa nel luglio 2020 (presidente del Consiglio Giuseppe Conte, n.d.r.,) quando decisero di accantonare la proposta europea di un piano – e non di un fondo – che avrebbe dovuto essere implementato per due terzi attraverso beni pubblici europei con una gestione diretta europea.
Essi lo hanno sostituito con un piano o meglio con un fondo che sarà implementato solo attraverso beni pubblici nazionali con una gestione nazionale indiretta, cosicché i meriti della ripresa e della resilienza saranno attribuiti ad ogni governo nazionale ma il fallimento di un piano sarà pagato dal governo incapace di rispettare tempi e modi delle riforme ma tutto il programma europeo pagherà le conseguenze di un fallimento.
Quel che sta avvenendo in questi mesi in materia di costi dell’energia, di ostacoli per il passaggio all’energia pulita, di lotta al cambiamento climatico dopo lo stallo della COP27, di aiuti per la ricostruzione dell’Ucraina (che ha richiesto l’attivazione di un nuovo debito pubblico europeo), di governo dei flussi migratori, della implementazione di una effettiva autonomia strategica nel settore dell’intelligenza artificiale attraverso accordi di partenariato con i paesi che possiedono le materie prime che mancano all’Europa, di creazione di una unione della salute, di politiche coerenti con l’obiettivo della biodiversità, dello sviluppo di una politica industriale europea a partire dal ruolo centrale delle piccole e medie imprese insieme alla rete degli attori dell’economia sociale: tutto questo rilancia la necessità di un piano per beni pubblici europei.
Essi richiedono un rafforzamento della capacità di governo a livello europeo con un’azione convergente di alcuni paesi come la Francia, la Spagna e l’Italia in cui l’interesse nazionale coincide con quello europeo.
Proprio nel momento in cui era indispensabile una più forte intesa fra questi tre paesi per rispondere alle incertezze e alle pulsioni nazionaliste di Berlino, si sono interrotti il dialogo e l’intesa fra Roma e Parigi ad un anno esatto dalla firma del Trattato del Quirinale.
Il terzo tema è quello della difesa dello stato di diritto e cioè della legalità, della certezza del diritto, della prevenzione dell’abuso del potere, dell’uguaglianza davanti alla legge e della non discriminazione, dell’accesso alla giustizia e dunque della indipendenza della magistratura.
Affermare che le sanzioni contro paesi come l’Ungheria e la Polonia, che violano lo stato diritto, congelando fondi europei che sono finanziati da tutti i cittadini europei sia una “barbarie” - come ha affermato l’eurodeputato di Fratelli d’Italia Nicola Procaccini da giovane militante nel Fronte della Gioventù – significa disconoscere e disprezzare i valori comuni su cui si fonda l’Unione europea.
Il disallineamento del governo Meloni dall’Unione europea non nasce certo dalla dichiarazione di Nicola Procaccini ma dal fatto ben più grave del voto dei parlamentari europei di Fratelli d’Italia (insieme a quelli del partito Prawo i Sprawiedliwosc e cioè Diritto e Giustizia al governo in Polonia) e della Lega (insieme a quelli del Rassemblement National di Marine Le Pen in Francia) contro la risoluzione del Parlamento europeo che chiede il congelamento di quei fondi.
Il disallineamento è provocato ancora di più dal fatto che il governo italiano si prepara ad impedire questa decisione nel Consiglio dei ministri dell’economia e delle finanze del 6 dicembre a cui parteciperà Giancarlo Giorgetti contribuendo alla formazione di una futura minoranza di blocco con Polonia, Ungheria e Svezia con la complicità della presidenza ceca del Consiglio che si orienta a non mettere ai voti la decisione.
Il disallineamento del governo Meloni dall’Unione europea rappresenta un grave danno per l’Italia e contribuisce al rallentamento del processo decisionale europeo nel momento in cui le vecchie e nuove emergenze esigono maggiore efficacia e determinazione.


Roma, 5 dicembre 2022                                           Pier Virgilio Dastoli

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